11 Settembre 2007. Oggi Ground Zero è l'obitorio d'America, fetido di scorie e fumo, di avanzi di carne piovuta dall'alto e contorta sotto il cadavere delle Torri Gemelle. Queste sono ridotte ad uno scarabocchio aggrovigliato di impalcature asfissiate dalla cenere, di frammenti di vetri a specchio che, nati per riflettere il sole, contemplano sangue, colori fluorescenti di giacche da soccorso e occhi che escono fuori dalle orbite. Oggi Ground Zero è l'immagine sullo schermo di tutte le televisioni, che così sembrano i pezzi sparsi di una serigrafia anni '50, è la cicatrice sullo sguardo di un popolo, è il marchio di garanzia che verrà riconosciuto ad una politica e al suo esercito. La Ground Zero dell'11 settembre sarà sempre quella del 2001: non c'è ricostruzione, modernizzazione, che possa scansare il sudario che in questo giorno, alle 8.45 dell'attacco terroristico, cala su questo luogo.
Sei anni fa, attorno a quell'ora, si trovava qui Richard Drew, ed è accanto a lui, dalla sua prospettiva, che vorrei guardare e ricordare il World Trade Center.
Drew non era solo, bensì con la sua macchinetta fotografica con cui, quel giorno, avrebbe dovuto scattare foto di una sfilata premaman su incarico dell'Associated Press, senonché, per grazia o colpa di una telefonata, il suo obiettivo ha finito col diventare l'occhio profanatore d'America. Dal suo ufficio gli comunicavano la notizia: due aerei si erano schiantati sulle Torri. Henry Cartier Bresson diceva che "ogni cosa ha il suo momento decisivo", e adesso Drew sapeva che quel momento lo aspettava a Ground Zero. Quando arrivò, il fuoco si stava saziando delle TwinTowers e la zona doveva già essere un mosaico di rumori: sirene, telefonini squillanti che propagavano l' eco costante di quanto accadeva, urla, pianti e singhiozzi, che si univano in uno straziante lamento funebre. Inizialmente il fotografo ha lasciato che la folla lo ingoiasse, finché gli uomini della polizia hanno cominciato a sgomberare la zona. Allora Drew è stato allontanato a West Street, ed è stato là che il "momento" è arrivato: sei o otto uomini che erano sulle torri stavano saltando nel vuoto per sfuggire alle fiamme, e allora l'obiettivo le ha catturate mentre precipitavano come detriti. Forse Drew non si rese conto che tra gli scatti ce n'era uno al quale gli Stati Uniti probabilmente non sarebbero mai stati pronti, perché quello scatto, conosciuto come The Falling Man, avrebbe svelato loro un'irrimediabile bellezza nel male. La fotografia infatti, parte di una sequenza di dodoci immagini, ritrae un uomo che ha deciso di non morire carbonizzato bensì schiantato al suolo, mentre cade in una posizione terribilmente armoniosa ed elegante, al punto da farlo sembrare una sorta di trapezzista che esegue il suo numero alla perfezione. La foto fu pubblicata il giorno seguente sul New York Times, e fu accolta come un'indecente eresia da una popolazione che, innorridita e stremata da quanto era accaduto, rigettava la perversione di uno scatto che, frutto di un voyeurismo riprovevole, osava adombrare il dolore di una tragedia con il suo estetismo lampante. Fu così, che "l'Inquisizione dell'11 settembre" fece di The Falling Man la foto proibita che i giornali non avrebbero più pubblicato.
Il concetto di "fotogiornalismo
L'11 settembre è il giorno delle Torri Gemelle, ma anche il giorno in cui una foto ha fatto il suo dovere: ci ha dato una nuova consapevolezza della realtà che ha sfidato la morale, l'ha invitata a ripensarsi. L'etica però ha perso contro il male, che è riuscito a ad annullare la sua protesta semplicemente abbellendosi, mentre la fotografia che lo aveva smascherato è stata condannata, come il testimone che sconta la pena al posto del crimanale. Così, questo 11 settembre, il mio ricordo va a The Falling Man, uno scatto che da allora, pesa sulla coscienza degli americani.
11 settembre 2007
"The Falling Man: uno scatto sulla coscienza..."
Pubblicato da WhiteRabbit alle 01:47
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