13 novembre 2009

ROGER BALLEN: UNA MACCHINA FOTOFRAFICA AL CIVICO DELLA PAZZIA


Immagini quadrate per stanze chiuse. Luoghi nei quali l’obiettivo di Roger Ballen ha messo sotto vuoto una dimensione inquieta e sinistra confinandola nello spazio asfittico delle sue fotografie, recentemente raccolte in un nuovo lavoro, “Boarding House”.


Ballen nacque nel 1950, nella New York in cui i barattoli di “Tomato” si apprestavano a passare dal carrello della spesa alla serigrafia, e dove da un pennarello a vernice, imboscato dentro una tasca di jeans sbrindellata, sarebbe saltato fuori un quadro da milioni di dollari. Sin da ragazzino, oltre a respirare l’aria di cambiamento che attraversava l’arte, poté vivere a stretto contatto con la fotografia. Durante gli anni ’60, sua madre lavorò per la Magnum e fondò una delle prime gallerie fotografiche della grande mela. Di più, Ballen poté scorrazzare tra le gambe di monna lise come Cartier Bresson, Eliot Erwitt, Paul Strand e soprattutto Andre Kertesz. Il lavoro di quest’ultimo, infatti, è spesso rievocato nelle immagini del fotografo, anche solo da piccoli accorgimenti aggiunti come si aggiunge una punta di sale nella pentola.


Pure, nei primi anni ’70 la macchina da foto si trasformò in un giocattolo da prendere sul serio. Tra bandiere schiaffate addosso al cielo, ammucchiate di capelli rincalzati nei pantaloni, e zeppe che marciavano per le strade come palazzi a portata di ratto, Ballen documentò la rivolta, arraffando le sue immagini succulente con qualche lazo di pellicola.

Diversi anni più tardi, l’Africa del sud; il suo sole tremulo e avvampato che scrosciava calore costante, fondendo le zone rurali in cui il fotografo cominciò a passare il tempo libero. Qui, la svolta.


Ballen abbandonò improvvisamente lo spazio aperto, i paesaggi ossigenati che lo circondavano, per intrappolare se stesso e la sua Rolleiflex 6X6 negli ambienti chiusi. Quello che doveva fare, infatti, era fotografare la trappola. Alcuni emarginati bianchi del posto accettarono di smezzare con lui l’aria delle loro camere scarne, marchiate dai segni di mobili estinti. Allora le sue foto, con tocco lapidario, ritrassero volti sconditi di qualunque serenità. Uomini e donne dai sorrisi ebeti, che fissano l’obiettivo con sguardi stranianti e corpi anomali, sui quali, a volte, cola qualche vestito smunto. Immagini che creano corrispondenze arbitrarie tra persone e animali, ponendoli in una realtà alterata che respinge e attrae, corrodendo qualsiasi controllo razionale in chi guarda. E ancora esseri umani spesso legati da lampanti vincoli sanguigni, di cui Ballen raffigura il lato sottilmente difettoso con una franchezza a tratti fastidiosa. Una serie di scatti disarmanti per la loro autenticità, in cui l’imperfezione punta i piedi di fronte alla macchina fotografica con dignità e coraggio.



Presto le stanze dalle mura ulcerate, che perdevano grumi di vernice su pavimenti dall’aria tombale, divennero i luoghi di strane fantasie dal retrogusto angosciante, e la macchina fotografica l’occhio che sembra guardare il fondo di una scatola degli scherzi, in cui gli oggetti vengono disposti secondo accoppiamenti ostili. Ballen, infatti, prese ad arredare gli spazi di cui disponeva assecondando le logiche di intuizioni visive minacciose, che tendono a snaturare le cose per come le conosciamo, caricandole di isteria.

Mani nodose, gambe spolpate, volti preda di urla eccessive, fanno da comparsa sbucando da vecchi scatoloni o da pile di materassi pregni di polvere, mentre qualche resto di bambola giace crudamente a terra senza possibilità di innocenza. Il tutto amplificato dalla presenza di stampelle ritorte, graffiti infantili e pelli zebrate di animali scuoiati.


Immagini psicotiche quelle di Ballen, lo scolo di un incubo che fa sgranare gli occhi e ti lascia con un battito accelerato, mentre allontani lo sguardo a braccetto della follia.





WhiteRabbit




24 novembre 2008

"Trilogia della città di K - Agota Kristof"





"Esercizio di accattonaggio"

Indossiamo abiti sporchi e laceri, ci togliamo le scarpe, ci sporchiamo la faccia e le mani. Andaimo in strada. Ci fermiamo, aspettiamo.
Quando un ufficiale straniero passa davanti a noi, alziamo il braccio destro per salutare e tendiamo la mano sinistra. Nella maggior parte dei casi l'ufficiale passa senza fermarsi, senza vederci, senza guardarci.
Finalmente un ufficiale si ferma. Dice qualcosa in una lingua che non capiamo. Ci fa delle domande. Non rispondiamo; restiamo inmmobili, un braccio alzato, l'altro teso in avanti. Allora fruga nelle tasche, posa una moneta e un pezzetto di cioccolato sul nostro palmo lercio e se ne va scuotendo la testa.
Continuiamo ad aspettare.
Una donna passa. Tendiamo la mano. Lei dice:
- Poveri bambini. Non ho niente da darvi.
Ci accarezza i capelli.
Diciamo:
- Grazie.
Un'altra donna ci dà due mele, un'altra dei biscotti.
Una donna passa. Tendiamo la mano, lei si ferma e dice:
- Non vi vergognate a chiedere l'elemosina? venite da me, ci sono dei lavoretti facili per voi. Tagliare la legna, per esempio, o lucidare la terrazza. Siete abbastanza grandi e forti. Dopo, se lavorate bene, vi darò della minestra e del pane.
Rispondiamo:
- Non abbiamo voglia di lavorare per lei, signora. Non abbiamo voglia di mangiare la sua minestra nè il suo pane. Non abbiamo fame.
Lei domanda:
- E allora perché chiedete l'elemosina?
- per sapere che effetto fa e per osservare la reazione della gente.
Andandosene grida:
- Piccole sporche canaglie! Screanzati, fare queste cose!
Rientrando, gettiamo nell'erba le mele, i biscotti, il cioccolato e anche le monete.
La carezza sui capelli è impossibile gettarla.





WhiteRabbit

13 settembre 2008

"Il Vizio della Storia ..."



Ebbene,‭ ‬alla storia,‭ ‬a quanto pare,‭ ‬occorre allegare‭ ‬un libretto delle avvertenze.‭ ‬Sopra bisognerebbe specificare che,‭ ‬somministrata ad un politico,‭ ‬può produrre gravi effetti collaterali.‭ ‬Un sintomo,‭ ‬abbastanza nocivo,‭ ‬lo abbiamo visto ieri a piazza San Paolo,‭ ‬divenuta luogo di contagio,‭ ‬in occasione della commemorazione del‭ ‬65°‭ ‬anniversario della Difesa di Roma.‭ ‬Il malessere si è palesato sulla bocca del ministro Ignazio la Russa, intervenuto prima del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cui è toccato rimediare con un pronto soccorso. Precisamente, con il suo intervento, il capo dello stato ha cercato di alleviare un attacco di revisionismo. "Farei un torto alla mia coscienza - ha dichiarato infatti il ministro - se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell'esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia". Già, patria. Fa bene il ministro La Russa a parlarne, perché la coscienza italiana pende da quella parola, ne è drogata. Talmente assueffata da non ricordare che nella patria, ci può finire di tutto. Come, del resto, tutto può finire nel soggettivismo. Su questo, riflettendo obiettivamente, saremo tutti d'accordo. Allora, è bene domandarsi quale fosse questa patria coraggiosamente difesa dai repubblichini di Salò.

Il sentimento nazionale che siamo chiamati a rispettare, è quello di una repubblica che teneva in convalescenza i valori e le istituzioni di un regime recalcitrante, quello fascista. Una dittatura intessuta su logiche di squadrismo e razzismo, soddisfatte da un invasivo sistema di organizzazioni collaterali, volte al soffocamento di scomodi individualismi. Ovviamente, il patriottismo, veniva evocato anche in quegli anni, in Italia come altrove, ovattando la realtà con nazionalsmi ubriachi di se stessi. Ne abbiamo avuto prova nel '36. Allora, l'amore per il paese ci univa nell'esaltazione del tanto desiderato posto al sole nelle terre etiopi, stordendo l'attenzione dai disastrosi costi umani ed economici di quell'invasione. Di più, per la preservazione dello stato, abbiamo italianizzato la popolazione slava, per disinfestare la patria da una cultura parassitaria, ragionevolmente relegata dietro il filo spinato dei campi di concentremento. Gli stessi di cui non ci vergognamo, perché poco o nulla se ne sa, nonostante costituiscano un elemento storicizzante di vitale importanza per capire la morte degli infoibati. Quelli che rivendichiamo e piangiamo ogni 10 febbraio, come martiri di una brutalità primordiale, che solo alle logiche della brutalità risponde. Formiamo la nostra coscienza rincorrendo "la patria", una parola svuotata come l'immagine di una serigrafia. Una parola che non dà mai risposte, perché non viene annoiata dal fastidio della domanda. Intanto, la nostra storia viene bivisezionata dei fatti che ne scuotono il corso, poi manipolati dai sentimentalismi della fiction e di certo documentarismo, dove la dimensione pubblica dei protagonisti passati abdica allo sviolinare di quella privata. Noi, nel frattempo, ciondoliamo imbambolati le teste, dove tutto è lo stesso e il contrario di tutto, e per ricordare basta ficcare la mente dentro una manciata di virgolettati.





WhiteRabbit

07 settembre 2008

"Ceci n'est pas une pipe..."



Il WhiteChapel




A Division Street l'aroma del sesso si appallottolava all'odore del carburante che usciva cotonato dalle marmitte opalescenti. Queste borbottavano mentre le macchine si accostavano ad ogni palo, viziato della presenza di guardiane che marcavano il loro dominio rumoreggiando con tacchi a spillo laccati di rosso. Quando i vetri traslucidi delle auto si abbassavano, quelle puttane versavano i loro seni dentro ai finestrini, e con un sussurro lasciavano rotolare su quella carne succulenta il loro prezzo. I muri delle strade erano tatuati di insegne purpuree che abbordavano maliziosamente la vista. Se ne stavano appese sopra vetrine sconce, sigillando gli orgasmi che grondavano dalle pareti di case chiuse, stripclub e bordelli. In un vecchio cinema per adulti le patte dei calzoni commentavano tristemente vecchi film, mentre il proiettore rimpinzava di corpi annodati il grande schermo. Chi non aveva soldi, trovava sempre un volantino invitante sdraiato su qualche lampione, che aspettava di essere strappato e portato via, dentro qualche camera buia e solitaria a regalare piacere di seconda mano. Dietro ai palazzi, le canne fumarie delle fabbriche esalavano colonne di fumo bitorzolute che si stracciavano al passaggio del vento, mentre la luna, rosa, sembrava un uncino incastrato nel cielo. Era da queste parti, al White Chapel, numero 254 di Division Street, che quella notte avrei concluso il mio lavoro. Si trattava di un casino di lusso. Nel salotto principale, le palline argentee scorrazzavano nevrotiche nelle roulette, saltellando indecise sul conto in banca di questo o quel giocatore. Il fumo delle sigarette galleggiava sopra le fish ammonticchiate sui tavoli da gioco, pregno dei segreti silenti che stavano raccolti sulle lingue umide di vino rosso di chi avrebbe scoperto la prossima carta. La luce friggeva nei cristalli ammassati sui lampadari. Ogni tanto, qualche signorotto si allontanava dagli altri, si sdraiava sui salottini di velluto e chiamava a casa, imboccando il cellulare di bugie. Alcune donne, con i corpi riposti dentro tuniche da suora, governavano le scommesse, e rintanavano la città dietro i drappi pesanti delle veneziane, che in lontananza, da fuori, sembravano grosse tane per topi.
Il proprietario era un travestito. Diane, La Signora. La sua pelle era come una scorza d'arancia molliccia attufata dal trucco. Le labbra, carnose ed altere, erano zuppe di rossetto rosso. Un paio di occhiali da sole, esageratamente grandi, le ombrava gli occhi pepati di ombretto e le ciglia grumose di rimmel, mentre il fard le incavava le guance. I suoi capelli erano un incastro pacchiano di ricci che stingevano sul cranio. Le catenine d'oro si impigliavano tra le grinze del suo collo, e intingevano le loro perle tra i seni ammucchiati sotto una casacca scollata, sulla quale si affollavano fiori colorati. Sedeva sempre davanti ad un tavolinetto con zampe di leone dorate, La Signora, sul quale teneva un giradischi d'epoca. Per tutta la sera, le sue dita macchiate, pasticciate di rughe, percorrevano una collezione di vinili, e infine ne sfilavano uno dal mucchio. Allora la puntina del grammofono raschiava via la musica da un vecchio disco. Si trattava ogni sera di note lamentose, che sembravano resuscitare stancamente dal pentagramma e che all'improvviso stridevano, si torcevano su se stesse, trainate a fatica da voci luciferine. Si compiaceva così, Diane, irritando i suoi clienti con quella musica ansiosa, dolente, stonata, mentre la tensione si condensava in sudore sui loro volti stanchi, schiavi di una figura.
Come per le ultime tre settimane , quella notte per tutti, anche per lei, sarei stato "Il Dottore". Avevo il mio gessato, una camicia ben stirata, scarpe tirate a lucido e, naturalmente, la mia cravatta, che strozzava al punto giusto la verità, perché, qualche volta, trottava dalla gola fino ai bordi delle labbra, facendomi ghignare un po' troppo. Soprattutto avevo la mia borsa di pelle, svuotata di antidepressivi e garze. Tutte cose che insieme a storie di stomaci squartati, cuori molli e tette scoppiate, avevano imbottito il fantoccio che avevo messo tra i presenti per quasi un mese : un medico affermato di mezza età, con una moglie stressata e una governante pettegola, che se ne stavano a cuccia dentro una buona scusa tutte le sere, mentre il maritino si prendeva i suoi spazi.
Quella volta, prima di uscire dalla pensione, avevo lucidato con cura la Bimba e, più importante, mi ero accertato che fosse carica, perché non mi abbandonasse nell'attimo decisivo, come poco tempo prima. L'ho avvolta lentamente in un camice che avevo rimediato da un amico chirurgo, e ho riposto il tutto nel fondo della borsa di pelle.
Verso le due di notte le suore chiusero i giochi. Per quell'ora le camere da letto si svuotavano degli altri clienti. Avvocati, imprenditori, notai, smettevano di spalmare i loro stomaci molli sui dorsi marmorei dei ragazzi, di risucchiare e strozzare giovani verghe con i buchi tra le loro natiche. Riordinavano le loro facce ridicole, sformate dall'eiaculazioni, e finivano di latrare mentre masticavano piccoli seni con le mani. Allora recuperavano la frustrazione e la noia, insieme alle mutande e ai vestiti sparsi per terra, per poi rivestirsi di tutto. A quel punto le sorelle si avvicinavano ai giocatori. Tiravano fuori dalle tuniche dei rosari di onice, dai quali pendevano grosse chiavi d'oro, sulle quali erano incisi nomi di uomini e di donne. Una di loro venne da me e mi fece cenno di seguirla. Mi portò in un corridoio profondo, dove la luce delle lampade ad olio spolverava dal buio il rosso delle pareti. Superammo diverse porte. La donna si fermò all'improvviso. Qualche cliente stava ancora uscendo dalle camere. Per qualche minuto rimasi a guardare una grossa tela. Raffigurava un putto intirizzito dentro una pozza di fango, privo di sensi. Aveva le membra arrovellate, violacee. Dalle orbite incavate sciabordava l'ombra, nella quale verminavano boccoli bianchi che sbavavano densi fili di sangue. Le labbra sembravano due piccoli spicchi di un frutto avariato, tra i quali pendeva una lingua blu. Intanto, un vecchio mulo maciullava tra i denti gialli i nervi delle sue ali sgarrate.
Attesi ancora un po', poi la suora riprese a camminare lentamente. Si fermò davanti ad una delle porte, ed io con lei. Là, su una lastra d'oro, c'era scritto un nome, lo stesso della chiave. "Cosey Mo", la mia ragazza.
La suora infilò la chiave del rosario nella serratura. Poi, si accese una Black Stones. Strappò dal filtro la prima boccata di fumo. Si voltò e andò via. Io entrai nella stanza da letto. Uno specchio barocco stava inclinato in avanti, con i bordi agguantati da rampicanti e fiori d'oro sporco. Rifletteva il piano di un cassettone, sul quale stavano rovesciate boccette di vetro paffute e smilze che urinavano pozze di profumo sul legno, dove gingillavano tappi argentei e ramati. I piumini del trucco erano incrostati di pustole di cipria , mentre le punte dei rossetti si squagliavano sotto la luce calda di un lume. Pastosi fili di smalto girovagavano tra pennelli e vasetti di ombretti crepati. Ad illuminare la stanza erano solo due grandi lampade a stelo, con la testa intrappolata in un alone vanigliato di luce. Al centro della camera se ne stava un grande letto a baldacchino dalle tende sanguinee, con le lenzuola sformate da amplessi ormai appassiti. In alto, sopra i cuscini, era appeso un vecchio quadro dalla cornice pesante, piena di rivoli dorati. Ritraeva due ragazzine, due gemelle, in piedi l'una accanto all'altra, con le braccia ciondolanti. Entrambe con un vestito di velluto nero dal colletto bianco. Entrambe con calze chiare ricamate. Entrambe con un caschetto corvino, e grosse orbite colme di grossi occhi di un blu slavato. Una sorrideva. L'altra aspettava seria. Al lato del letto, una poltroncina bohème dai cuscinetti vermigli, sulla quale stava sbatacchiato il corpo della ragazza, intontita dopo l'ennesimo uomo e l'ennesima dose. La sua pelle era esangue. Sul suo corpo le labbra scarlatte , tumide, sembravano una macchia di sangue dimenticata dopo un delitto. Guardavo i suoi capelli scuri, ondulati, che le si infilavano dappertutto come anguille; anche in mezzo alle gambe divaricate, dove il suo sesso stanco riposava sotto tanti strati di tulle e pizzo. Gli occhi, con le pupille dilatate, colavano ai bordi delle palpebre. I suoi seni stavano sbattuti in un corpetto cremisi mezzo slacciato, mentre le braccia, esili, le ricadevano sulla gonna bombata dello stesso colore. i polsi erano legati insieme da un nastro rosa ritorto, che si mischiava alle sue dita aggrovigliate. Sulle gambe portava calze a rete sgarrate . Su uno dei due ginocchi ossuti aveva una giarrettiera ben stretta con un fiocco rosso, mentre i suoi piedini si storcevano dentro scarpe da bambola verniciate. Io la contemplavo ossessivamente e pensavo se sarei riuscito ad estorcere tutta la sua orribile bellezza. I miei occhi palpavano le sue membra fanciullesche da tutte le prospettive, fiutavano ogni ombra irripetibile nei giochi di luce delle sue forme incerte, così tremendamente sfatte. Erano subdoli, insolenti, ingombranti, desiderosi di strapparle via tutte le linee del corpo. Volevano ingoiare la sua immagine, e quando l'avessero fatto, l'avrei umiliata, annullato i residui della sua volontà in un solo momento, uno soltanto.
Presi la borsa da dottore, e mentre il rumore della cerniera mi stava addosso come un moscone, sentivo le mie mani e i miei occhi imbrattati del senso di colpa. Tirai fuori la bimba, ancora perfettamente avvolta nel camice. Facendo attenzione la liberai dalla stoffa bianca, e la puntai contro il corpo della fanciulla. Ora Il mio occhio destro stava quasi spiaccicato nel mirino, famelico. Svicolava tra le ossa sporgenti della piccola puttana, ruzzolava sui suoi zigomi, per poi accovacciarsi sui lividi che macchiavano le sue braccia, vicino ai buchi delle siringhe. Si bagnava del suo rossetto, si assopiva tra i merletti del suo vestito. Tutto alla ricerca del dettaglio giusto, quello che avrebbe mosso il mio indice, che mi avrebbe dato finalmente la freddezza per premere.
Cosey Mo stava tutta nella mia retina, mi fermai. Stavo per portarle via tutto ciò che era in quel preciso momento: un pezzo di carne che era stato apparecchiato dentro una camera da letto, e che ora stava schiaffato su una poltroncina rossa come un avanzo del sesso.
Mirai con decisione. Premetti. Sentii lo scatto. Lei non lo sentì. Non aveva le forze per accorgersi di niente.



Jude e Lucy




Nell'appartamento le urla dai marciapiedi di sotto si schiaffavano sui vetri incrostati e colavano giù, annebbiando i timpani. Le lampadine in casa pulsavano la luce con la forza di cuori cardiopatici. In cucina, nel frigorifero, i cibi precotti stavano imbalsamati nel ghiaccio, mentre la ragazzina mungeva tubi di maionese e senape su toast bruciati.Il pavimento era impiastrato di pozze di spezie, alcool, e sugo, nelle quali strofinava i piccoli palmi dei piedi nudi, per poi abbandonare fetidi scarabocchi in tutte le stanze. Nel lavandino acqua sporca, sulla quale galleggiavano mosche morte, infilandosi nel grasso di piatti e padelle . Lui strizzava i filtri ingialliti delle sigarette nella gommapiuma del divano, mentre le pupille gli ciondolavano sulla parete ammuffita e la televisione gli tirava addosso qualche pubblicità. Tutto finché si alzava preso dalla nausea, e si chiudeva in bagno per far digerire alla tazza il suo vomito. Jean arrivava ogni sera alle undici, con una siringa sterilizzata e quel tanto di eroina che scuoteva gli occhi annacquati del suo docile cliente. Allora Jude , con la mano scarna, tremante, lasciava scodinzolare qualche dollaro rinsecchito. Se i soldi non bastavano, per pareggiare i conti, Jean gli mandava a casa qualche donna da rovistare un po' con la lingua, o lo usava come palo per uno dei suoi affari. Altre volte, era crisi di astinenza. In quei casi Jude si chiudeva a chiave nella sua camera, perché la figlia non vedesse. Da fuori lo immaginavo. Il corpo incagliato nelle urla, che rantolava ammantato in una placenta di puzza e sudore. Dentro le orbite un intruglio di occhi, lacrime e sangue, e in bocca la lingua a mollo nella bava. Le dita nevrotiche che grattando cercavano di racimolare carne sotto le unghie nere, e la testa schiantata contro il muro per anestetizzare il cervello. Intanto, fuori, Lucy raccoglieva e buttava via le siringhe usate dal papà, sparse sulla moquette madida di Jack Daniels. Spesso usciva da sola. Andava in un supermercato e ingravidava le grandi tasche della giacca di Jude di scatolette rubate, per lo più pezzi di carne incastrati dentro cubi di gelatina flaccida. Sui marciapiedi, dei neri stavano spalmati nelle cabine telefoniche fumando crack, con l'aria di grossi insetti da esperimento intrappolati dentro barattoli da laboratorio. I poliziotti si ficcavano nei vicoli. L'asfalto avvampava di calore le loro divise. Le lingue sode si bagnavano su quelle degli spacciatori, che con le dita tozze soppesavano i glutei contratti delle guardie. Le donne strascicavano le loro membra stufe sulle brande sfasciate di monolocali incolori. I pori della loro pelle esalavano l'odore chimico dei detersivi, mentre gli occhi spurgavano trucco nero che macchiava coperte di lana dalle maglie snervate. Per strada, su un filo della corrente, si attorcigliava la coda scorticata di un topo morto e unto, che dondolava appeso a testa in giù. I cavi elettrici rigavano il cielo, come per cancellare nuvole sbagliate.
Jude aveva fregato molte persone. La bocca, bieca, aveva cantato i nomi sbagliati. Il suo corpo sballottava da un crimine all'altro rovesciando fiaschi e sentimenti. Le mani callose avevano ammanettato i colli dei suoi capi, mentre ne vedeva i volti scoppiare di rosso. Le sue dita si sciacquavano fra i loro bigliettoni e tra le gambe delle loro mogli. Lungo i fili delle cornette aveva fatto scivolare trasfusioni di minacce e tradimenti. I suoi timpani, ormai, erano un reliquiario di urla straziate.
Adesso, nello stato in cui era, non serviva quasi più a nessuno, e in molti volevano arrivare prima di una siringa a spedirlo dritto all'Inferno. Sembrava che ogni puntura dovesse addormentargli il corpo, perché il suo assassino potesse entrare silenziosamente in casa, chinarsi su di lui, e finalmente aprirgli il petto scavato.
Non impiegò molto a capire perché mi trovavo lì. Gli spiegai quello che dovevo fare. Lui stava sbattuto sul letto. Sotto la schiena un lenzuolo sgualcito imbrattato di urina. La mano inzuppata in una ciotola piena di latte e cereali. Non protestò, non mi aggredì, non disse niente. Chiese solo di poter scegliere lui il momento. Per me, andava bene. Sapevo che di scappare non gl'importava nulla. Mi avrebbe permesso di portare a termine il lavoro. Da allora, e per settimane, andai ogni giorno a casa sua. Con me avevo sempre la Bimba. Entrambi in attesa.
Per Jude, il concepimento di Lucy era un ricordo arrangiato. Rivedeva le labbra livide di una prostituta, la Gauloise Rouge che penzolava. Poi, le giarrettiere strappate della donna del suo ultimo socio, i seni intirizziti di una spogliarellista, gli spasmi sfiniti di una cameriera e la pelle fradicia di una fioraia. Mischiava tutto, e alla fine riusciva a mettere insieme un coito abbastanza decente dal quale far sbucare la figlia. Lucy lo amava.
Ogni tanto, nel salotto, ballava per Jude. Da una cesta prendeva un tutù rosa, con il tulle tutto tarlato. Lo assestava con uno spago attorno alla vita. Tutte le volte, ricadeva smunto sulle piccole gambe sbucciate, come un fiore bagnato. Attorno ai calzini sgarrati, che strisciavano dietro ai suoi piedi come bava di lumaca , incrociava nastri di plastica rossi, di quelli che corrono sulla carta da regalo. Alla fine, appuntava il ghirigoro sulle caviglie con un fiocco striminzito. Usava degli stecchini da cucina per accomodare i capelli dorati, creando sempre un sofisticato inguacchio. Quando era pronta, si accovacciava davanti ad un vecchio carillon. Lo caricava, e quello iniziava a singhiozzare il suo motivetto. Allora capitava che Jude cominciasse a rispuntare fuori dal buco che si era fatto, e che trovasse ad attenderlo Lucy, che piroettava e saltava tra bottiglie vuote, mucchietti di cenere e cucchiai roventi.
Jude recintava le notti della ragazzina con le sue braccia e le sue gambe, tra le quali la figlia cestinava gli ultimi respiri della giornata, mentre si addormentava.
Rastrellava via i capelli dal volto chiaro di Lucy con le dita, e le raccontava una filastrocca per tamponare le finestre di fronte, dalle quali uscivano fiotti di grida. I magnaccia svincolavano le cinte di pelle dai passanti dei calzoni. Le schioccavano sulle schiene delle loro donne, che sbattevano sui fornelli arroventati, dove bolliva l'olio rifritto di cene riscaldate.
Intanto Jude recitava la solita storiella strampalata alla bambina "Immaginati in una barca sul fiume - le diceva - con alberi di mandarino e cieli di marmellata. Qualcuno ti chiama, tu rispondi con molta lentezza. E' una ragazza con gli occhi di caleidoscopio. Fiori di plastica gialli e verdi torreggiano sul tuo capo. Cerchi la ragazza col sole negli occhi, e scopri che è andata via. Seguila ì fino a un ponte, vicino una fontana dove la gente sui cavalli a dondolo mangia torte di caramella, e sorride quando ti apri un varco in mezzo ai fiori che crescono così incredibilmente alti. Un taxi fatto di giornali si avvicina lungo la spiaggia e aspetta di caricarti. Tu ci sali con la testa nelle nuvole e parti. Immaginati su un treno in una stazione, con facchini di plastilina e traversine che sembrano di vetro, e a un tratto ecco qualcuno avvicinarsi al cancelletto girevole. E' la ragazza con gli occhi di caleidoscopio. "
Fu un pomeriggio, alle sei e trentaquattro, che Jude mi portò con lui nel bagno. Aveva deciso. Le mattonelle comprimevano tra loro tocchi di pattume melmoso. Sembrava che le pareti bianche si fossero pisciate sotto. Lo specchio, pieno di ditate, riportava spaccature e ferite da rossetto, insulti che gli lasciavano le donne, dopo essersi scrollate e aver tirato su panciere di pizzo slabbrato . Nel lavandino umido, si coagulava la polvere di pasticche di valium, metadone e morfina. Il rubinetto somministrava gocce d'acqua allo scolo. Per terra, uno straccio strizzato e un secchio, rovesciati dentro un pantano di sapone lurido.
I cassetti, sbattuti contro le piastrelle traslucide del pavimento, rovesciavano tubi di dentifricio spappolati, pettini sdentati e batuffoli anneriti imbevuti di alccol.
La coda della doccia se ne stava tutta floscia nella vasca. Jude girò le manopole squamate di ruggine per riempire quella bagnarola. Le tubature iniziarono a gorgogliare. Uscirono strappi d'acqua che precipitarono sul fondo crepato di ceramica bianca. Intanto, il suo corpo spolpato si sbucciava dei vestiti bisunti, sfibrati. La pelle era una pellicola rosastra incollata alle ossa, dove i muscoli e i grassi si erano completamente prosciugati. Le membra erano chiazzate di ematomi violacei ed emanavano un odore stantio di colonia.
I noduli di polvere si annidavano tra i capelli pastosi che gli intarsiavano il cranio. Io stavo con le spalle contro il muro freddo, dietro una corda dove un disegno di Lucy sbrodolava gocce di tempera, e mollette di plastica soccorrevano stracci fiacchi. Vedevo il vapore caldo dell'acqua ovattare la faccia e lo stomaco di Jude, incipriargli i colori e le linee sghembe del corpo che affossava lentamente l'acqua. Afferrai la Bimba. Lo puntavo. Le gambe aperte. Una verga sfiorita tra peli ispidi.
Dallo sgabello accanto alla vasca prese il tubicino di lattice, per dissotterrare dai tessuti dell'avambraccio la vena che avrebbe deglutito il cucchiaio di eroina. Braccava la siringa tra l'indice e il medio. Stava per farlo, e anch'io.
Poi, Lucy. Iniziò a sbattere i piccoli pugni contro la porta del bagno. Le sue ciglia nere scrollavano lacrime. Chiamava Jude, voleva che uscisse, che l'aiutasse a fare i compiti. Le urla le morivano addosso. Il padre stava facendo ronzare l'ago vicino alla pelle. La bocca di Lucy cominciava a ciccare piccoli mugolii a terra. Io continuavo a puntarlo. Lucy in silenzio, si era accucciata dietro la porta. Il senso di colpa. Jude premette, pompò tutto dentro. Gli occhi blu salirono su, al piano dimenticanza. Le labbra, aperte, avevano preso in bocca un orgasmo. Lucy chiamò: "papà".Dovevo premere. Premetti anch'io. Jude non rispose.



La Pipa




La stanza era gelida. Le lampade appiccavano la luce sanguinolenta alle pareti spellate e ai corpi catturati, stesi sui fili di ferro ad asciugare, sparsi a terra o a mollo nelle vasche d'acqua. Dovevo chiudermi là dentro, esaminarli clinicamente uno ad uno. Scoprire se il mio indice aveva fermato la loro esistenza nell'attimo in cui i sentimenti ciancicavano la loro faccia, mentre le rughe montavano gli zigomi e incastonavano i globi oculari. Ogni espressione doveva ingolfarsi sui loro volti. Sulle parti del corpo che avevo rubato, doveva cristallizzarsi un indizio essenziale della condizione o della fisicità di una persona. Qualcosa che squarciasse lo sguardo altrui, per ferirlo o elevarlo alla bellezza, quando avrei reso pubblico ciò che avevo fatto.
In quei mesi avevo finito il mio ultimo lavoro. Ora, stavo malissimo. Dopo Cosey, Jude e Lucy, crollai. Per settimane avevo vissuto con ruffiani, spacciatori, boss, donne e uomini che transitavano su aghi sterilizzati. Tra le capsule d'oro dei papponi vedevo sfilacciarsi bocconcini di carne stoppacciosa, che filtravano i ghigni con cui punteggiavano racconti di ragazzini sodomizzati. Vedevo mocassini lucidi sturare i sedili posteriori delle Chevrolet, tirando calci secchi contro i viados. Li guardavo stramazzare a terra, pestati di botte e trapuntati di lustrini argentei schizzati di sangue cremoso. E poi, ladruncole che appallottolavano le mani in mezzo alle gambe per raccattare calore, sdraiate sulle panchine delle metropolitane a tarda notte. I corpi, con il loro tremore convulso, che macinavano le cartacce oliose accatastate sulle lastre di metallo freddo. Io non interferivo. Nessuna reazione. Non facevo niente. Tranne, ovviamente, guardarli. Li guardavo dietro al mirino. I miei occhi erano invasivi, si accanivano sulle immagini di quegli uomini e quelle donne. Il mio corpo, intanto, li lasciava marcire. Verso di loro si muovevano solo le mie pupille, sentinelle addestrate che sondavano le figure umane, in attesa di incappare nel momento decisivo dell'abiezione o della sofferenza. Avrei regolato la mira al loro primo segnale , fermando la vita di ognuno. Li imbalsamavo. Così la vergogna, la povertà, l'indecenza dell'attimo in cui gli mettevo la bimba addosso, si sarebbero mischiate alle loro membra per sempre. Lo facevo perché gli altri, scioccati da quello che avrebbero visto, potessero prendere coscienza di quella gente. Assimilarla a partire da uno sguardo. Volevo che ognuno di loro, nelle condizioni in cui lo esibivo, recasse un turbamento tale, alla vista di chi guardava, da inquinargli il sangue. Le urla, che gli spettatori avrebbero letto sulle bocche degli uomini che mostravo, dovevano ficcarsi nelle loro bocche. Il lividi delle bambine intorpidire le loro schiene, i rossetti delle bancarelle sbavare le guance delle puttane, e le loro guance. Desideravo che le macchie dei miei disgraziati rovinassero i loro vestiti e che i tacchi troppo alti delle mie fanciulle indolenzissero i loro piedi. Volevo che la vista li trascinasse in un immaginario e insostenibile rapporto carnale con ognuna di quelle persone.
Intanto, nei miei occhi sentivo ammucchiarsi capelli, rughe, mani, colli. Digrignavo i denti. Cercavo di ributtare quelle immagini insieme alle lacrime. Era inutile. Labbra leporine, bocche che accasciavano bava sulle cornette dei PeepShow, orbite spolpate, ragazzi scoiati violentemente dei vestiti. Quelle figure fecondavano le mie retine figliando incubi, nei quali rimbombava l'eco della segreteria telefonica e l'accento messicano della donna delle pulizie, che mi urlava di aprire quella fottuta porta. Le immagini se ne fregavano, e continuavano a strappare i nervi ottici dei miei occhi ingordi, maledettamente vogliosi di guardare.
Quando mi calmavo un po', mi chiudevo nella camera. Dovevo occuparmi del lavoro che avevo lasciato in sospeso prima della partenza.
Rovistai tra tutte le persone che non avevo ancora esaminato, e mi occupai di tutti i dettagli rimasti trascurati. Cominciai da Caldero, il Clown. Quando lo vidi la prima volta stava stravaccato tra sacchi paonazzi e deformi. Sembrava che fosse scivolato su una macchia grumosa di confettura di ciliegie, dopo lo spettacolo terribile di quella sera. Adesso lo tenevo tra le mani. Era tutto impataccato dei pomodori succosi che gli avevano spiaccicato addosso. La parrucca stava cadendo dalla testa calva, come una palla di pistacchio da un cono biscottato. Prima di cedere al sonno, aveva pianto. Le ciglia erano fradice e gli occhi rigonfi. Le lacrime gli avevano impoverito tutto il trucco, che si impastava ai baffi di vino sopra la bocca irrimediabilmente triste. Potevo tenerlo. Continuai. Le mie mani si fecero spazio scansando diversi volti, busti, gambe. Alla fine, controllai il braccio della vecchia Mimosa. Era stravolto di vene sulle quali la pelle scendeva floscia, con l'aria di una colata di cera. Le unghie ingiallite erano smaltate di arancio, mezzo smangiucchiato. Si era arredata le mani con guantini smerlettati di centrino bianco e con grossi anelli di bassa bigiotteria, sui quali si abbottonavano grasse pietre di plastica blu e verdi. Tra le dita, il regolamento di un ospizio. Purtroppo le parole erano tutte sbiadite, sfuocate. Gettai via il braccio. Poi, tirai fuori dal mucchio il barbone della stazione di MoonDog. Ricordo che lo trovai in piedi, accanto a un palo della luce. Era pieno giorno. Sulla sua faccia nera divaricava un sorriso al cielo. i Suoi denti, battendo all'improvviso, ghigliottinavano le parole di una preghiera. Le braccia si agitavano in alto. Sembrava che Dio gli fosse sfuggito di mano come un palloncino. Lo misi da parte. Dopo, cestinai un volto e un orecchio scarnificato dagli insetti. L'avevo trovato in mezzo a dei ciuffi d'erba alla fine di un lavoretto. Sopra il Signor Telli, uno sceneggiatore fallito che recitava i suoi copioni da un capolinea all'altro dei tram, era finita Solange, la burattinaia cieca. Sotto la sua sottana di zingara rotolavano palle di filo lanoso e rocchetti di legno scorticati, coi quali rammnendava i suoi pupazzi di pezza, presi a sassate da qualche monello. Riposi lei e Telli insieme a Caldero.
Mentre stavo studiando un ventre sentii bussare timidamente alla porta. Aspettai che se ne andassero. Niente. I pugni continuavano a pioviccicare sul legno avvolti in una vocina debole, che sbriciolava parole. Non riuscivo a concentrarmi. Ero stufo. Presi la bimba e serrai la camera. Sganciai il chiavistello dalla porta di casa. Girai la chiave nella serratura, che risvegliò le tre mandate dietro alle quali mi ero barricato. Aprii svogliatamente. Sulla soglia, accucciato sul mio tappeto rasposo, un bimbetto. Tra le gambe stringeva un grosso barattolo di zucchero. Forse, doveva restituirlo all'inquilina di fronte. Aveva commesso un errore. Affondava le manine umide di saliva nel contenitore di vetro. Le stropicciava sul viso e sulla lingua, infestandosi le guance rosate di granuli dolciastri. Non potevo resistere. Mi chinai e puntai la bimba di fronte alla sua testolina golosa. Il bimbo alzò i grandi occhi verde pastello. Guardò la mia bimba. Gli occhi terrificati. Accorciai la distanza tra me e lui. Le sue lacrime. Premetti. Premetti di nuovo. Nulla. Lo scatto non partiva. Maledizione. Cominciai a controllare la Bimba. Non capivo. Alzai lo sguardo. Il Bimbo stava filando sulle rampe delle scale. Guardai il tappeto. Della mia fotografia, non restava che un barattolo di zucchero rovesciato davanti alla porta di casa.





WhiteRabbit

"Buon Compleanno Calamaio!"




Lo avrete capito dal titolo del post: WhiteRabbit Inkpot ha compiuto un anno! Si è retto a galla più o meno per 365 giorni, annaspando un po' nel caos della rete, dove le parole, le immagini, i link, si prendono continuamente a spintoni. E' rimasto qua, conteggiando i secondi, i minuti, le ore, in cui non mi davo sufficientemente da fare, dandomi ogni volta lo scossone per dare una mano di inchiostro a queste sue pagine bianche, di finta carta. Ha messo a nudo il mio difetto di fabbrica: la lentezza, che sto cercando di curare anche grazie a lui. Pure, garantisco che ogni frase lasciata qui di mia penna, è stata letteralmente cavata dalla testa e dalla pancia, alle volte con gestazioni dure, che hanno richiesto tempi lunghi, di cui però non mi pento. Qui c'è una parte rivelatrice della mia pignoleria nello scrivere, del tentativo di dare alle mie parole un'individualità che le faccia sopravvivere. Alle volte ci sono riuscita, altre un pò meno, probabilmente ci sono stati casi in cui ho sbagliato tutto. L'unica cosa certa è che l'inchiostro resta per me indispensabile, con tutta la fottuta paura che questo comporta. In realtà i miei auguri arrivano un po' in ritardo, ma il fatto è che il mio regalo non era ancora pronto. Ora lo è, e l'unica cosa che posso dire è che scriverlo è stato un parto gemellare. Si tratta di un racconto, che pubblicherò qui sopra in un post a parte.

Che altro dire? Ci siamo ancora, il Calamaio e il suo Bianconiglio...





WhiteRabbit

30 giugno 2008

"La strada" - Cormac McCarthy



Erano ferme sulla sponda opposta di un fiume e lo chiamavano.‭ ‬Divinità lacere che si trascinavano coi loro stracci attraverso quella terra desolata.‭ ‬Sul fondo asciutto di un oceano minerale,‭ ‬crepato e spaccato come un piatto caduto a terra.‭ ‬Tracce di fiamme funeste tra le sabbie coagulate.‭ ‬Le figure svanivano in lontananza.‭ ‬Si svegliò e rimase steso nel buio.

Gli orologi si fermarono all’una‭ ‬e diciassette.‭ ‬Una lunga lama di luce e poi una serie di scosse profonde.‭ ‬Lui si alzò e andò alla finestra.‭ ‬Cosa c’è‭?‬,‭ ‬disse lei.‭ ‬Lui non rispose.‭ ‬Andò in bagno e premette l’interruttore ma la corrente era già andata via.‭ ‬Un debole bagliore rosato alla finestra.‭ ‬Lui si chinò su un ginocchio e alzò la levetta per bloccare lo scarico della‭ ‬vasca e aprì al massimo tutti e due i rubinetti.‭ ‬Lei era ferma sulla porta in camicia da notte,‭ ‬aggrappata allo stipite,‭ ‬una mano a sostenere il pancione.‭ ‬Cosa c’è‭? ‬Che succede‭?
Non‭ ‬lo so.
Perché ti fai il bagno‭?
Non mi faccio il bagno.

Una volta,‭ ‬in quei primi anni,‭ ‬si era svegliato in un bosco spoglio ed era rimasto ad ascoltare gli stormi di uccelli migratori sopra di lui in quell’oscurità feroce.‭ ‬I loro stridii smorzati a chilometri di altezza,‭ ‬là dove volavano insensatamente intorno alla terra come insetti sul bordo di una ciotola.‭ ‬Gli augurò buon viaggio e poi scomparvero.‭ ‬Non li sentì mai più.

Aveva un mazzo di carte trovate nel cassetto di una scrivania in una casa.‭ ‬Le carte erano logore e consunte e mancava il due di fiori,‭ ‬ma a volte ci giocavano lo stesso,‭ ‬avvolti nelle coperte alla luce del fuoco.‭ ‬Lui cercava di ricordarsi le regole dei giochi che faceva da bambino.‭ ‬Rubamazzo.‭ ‬Una versione particolare di scala quaranta.‭ ‬Era sicuro di fare un sacco di errori e allora inventava giochi nuovi cui dava nomi inventati.‭ ‬Fuscello Gigante o Vomito di Gatto.‭ ‬A volte il bambino gli faceva domande sul mondo,‭ ‬che per lui non era nemmeno un ricordo.‭ ‬L’uomo rifletteva a lungo su come rispondere.‭ ‬Non c’è nessun passato.‭ ‬A te come piacerebbe‭? ‬Ma poi smise di inventarsi le cose perché neanche quelle erano vere e raccontarle lo faceva star male.‭ ‬Il bambino aveva le sue fantasie.‭ ‬Come sarebbe stato nel Sud.‭ ‬Altri bambini.‭ ‬Lui cercava di tenerle a freno ma senza troppa convinzione.‭ ‬E chi al posto suo‭?

Nessuna lista di cose da fare.‭ ‬Ogni giornata sufficiente a se stessa.‭ ‬Ogni ora.‭ ‬Non c’è un dopo.‭ ‬Il dopo è già qui.‭ ‬Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore.‭ ‬Nascono dal cordoglio e dalle ceneri.‭ ‬Ecco,‭ ‬sussurrò il bambino addormentato,‭ ‬io ho te.

Ripensò alle foto della moglie sulla strada e si disse che avrebbe dovuto tentare di farla restare nelle loro vite,‭ ‬ma non sapeva come.‭ ‬Si svegliò tossendo e si allontanò dal telo per non svegliare il bambino.‭ ‬Lungo una parete di roccia nel buio,‭ ‬avvolto nella coperta,‭ ‬inginocchiato nella cenere come un penitente.‭ ‬Tossì fino a sentire il sapore del sangue e disse il nome di lei a voce alta.‭ ‬Pensò che forse l’aveva pronunciato anche nel sonno.‭ ‬Al suo ritorno i bambino era sveglio.‭ ‬Scusa,‭ ‬gli disse.
Non fa niente.
Rimettiti a dormire.
Vorrei essere con la mamma.
Lui non rispose.‭ ‬Si sedette accanto al corpicino avvolto nelle trapunte e nelle coperte.‭ ‬Dopo un po‭’ ‬disse:‭ ‬nel senso che vorresti essere morto‭?
Si.
Non devi dire così.
Però è vero.
Non lo dire.‭ ‬E‭’ ‬una cosa che non si deve dire mai.
Non lo faccio apposta.
Lo so.‭ ‬Però devi trattenerti.
E come faccio‭?
Non lo so.
Siamo dei sopravvissuti,‭ ‬le disse,‭ ‬guardandola oltre la fiamma della lampada.
Sopravvissuti‭?‬,‭ ‬disse lei.
Si.
Dio mio,‭ ‬ma cosa stai dicendo‭? ‬Non siamo dei sopravvissuti.‭ ‬Siamo dei morti viventi in un film dell’orrore.
Ti prego.
N on me ne importa.‭ ‬Non m’importa se piangi.‭ ‬Mi lascia del tutto indifferente.
Per favore.
Piantala.
Ti supplico,‭ ‬farò qualunque cosa.
Tipo cosa‭? ‬Avrei dovuto farlo tanto tempo fa.‭ ‬Quando nella pistola c’erano tre pallottole invece di due.‭ ‬Sono stata una stupida.‭ ‬Ne abbiamo parlato in abbondanza.‭ ‬Non mi ci sono cacciata io in questa situazione.‭ ‬Mi ci hanno cacciata.‭ ‬Adesso però basta.‭ ‬Ho perfino pensato di non dirtelo proprio.‭ ‬Probabilmente sarebbe stato meglio.‭ ‬Hai due pallottole,‭ ‬e poi?Non puoi proteggerci.‭ ‬Dici che per noi daresti la vita,‭ ‬ma a che servirebbe?Non fosse per te mi porterei dietro anche lui.‭ ‬Sai che lo farei.‭ ‬Sarebbe la cosa più giusta.
Stai farneticando.
No,‭ ‬sto dicendo la verità.‭ ‬Prima o poi ci prenderanno e ci ammazzeranno.‭ ‬Mi stupreranno.‭ ‬Stupreranno anche lui.‭ ‬Ci stupreranno,‭ ‬ci ammazzeranno e ci mangeranno e tu non vuoi affrontare questa verità.‭ ‬Preferisci a spettare che succeda.‭ ‬Ma io non posso.‭ ‬Non ce la faccio.‭ ‬Era seduta lì e fumava un rametto secco di vite come se fosse un sigaro pregiato.‭ ‬Lo reggeva con una certa eleganza,‭ ‬mentre con l’altra si teneva le ginocchia strette al petto.‭ ‬Lo guardò attraverso la piccola fiamma.‭ ‬Un tempo parlavamo della morte,‭ ‬disse.‭ ‬Adesso non ne parliamo più,‭ ‬come mai‭?
Non lo so.
Perché adesso è qui.‭ ‬Non c’è più niente di cui parlare.‭ ‬Io non ti abbandonerei mai.
Non me ne importa.‭ ‬Non ha senso.‭ ‬Se vuoi considerami pure una puttana infedele.‭ ‬Mi sono fatta un nuovo amante.‭ ‬Mi dà quello che tu non puoi darmi.
La morte non è un amante.
Per favore,‭ ‬non farlo.‭
Mi dispiace.
Io non ce la faccio da solo.
E allora pazienza.‭ ‬Io non ti posso aiutare.‭ ‬Dicono che le donne sognano i proprio cari in pericolo mentre gli uomini sognano di essere in pericolo per loro.‭ ‬Ma io non sogno per niente.‭ ‬Dici che non ce la fai‭? ‬E allora lascia perdere.‭ ‬Punto e basta.‭ ‬Perché io ho chiuso con questo mio cuore.‭ ‬Di puttana,‭ ‬e da parecchio.‭ ‬Tu parli di resistere,‭ ‬ma resistere per cosa‭? ‬Il mi cuore si è spezzato la notte che è nato lui,‭ ‬quindi adesso non chiedermi di provare dolore.‭ ‬Non ne provo.‭ ‬Magari tu te la caverai bene.‭ ‬Ne dubito.‭ ‬Ma non si sa mai.‭ ‬L’unica cosa che posso dirti è che sopravviverai per te stesso.‭ ‬Lo so perché io non sarei mai arrivata fino a qui.‭ ‬Le persone che non hanno nessuno farebbero bene a imbastirsi qualche fantasma decente.‭ ‬Dargli il soffio della vita e convincerlo a proseguire con parole d’amore.‭ ‬Offrirgli ogni minima briciola e proteggerlo dal male con i proprio corpo.‭ ‬Quanto a me,‭ ‬spero solo di raggiungere il nulla eterno,‭ ‬e lo spero con tutto il cuore..
Lui non rispose.
Non hai argomenti perché non ce ne sono.
Non lo saluti nemmeno‭?
No.
Almeno aspetta fino a domattina.‭ ‬Ti prego.
Devo andare.
Era già in piedi.
Per l’amor di Dio,‭ ‬donna.‭ ‬E io che cosa gli dico‭?
Non ti posso aiutare.
Dove andrai‭? ‬Non ci vedi nemmeno.
Non ho bisogno di vederci.
L’uomo si alzò.‭ ‬Ti prego,‭ ‬le disse.
No.‭ ‬Non insistere.‭ ‬Non posso.

Se ne andò e la freddezza di quel commiato fu il suo ultimo dono.‭ ‬L’avrebbe fatto con una scheggia di ossidiana.‭ ‬Gliel’aveva insegnato lui stesso.‭ ‬Più affilata dell’acciaio.‭ ‬Il taglio dello spessore di un atomo.‭ ‬E aveva ragione lei.‭ ‬Non c’erano argomenti.‭ ‬Quel centinaio di notti che avevano passato svegli a discutere sui pro e i contro dell’autodistruzione con il fervore dei filosofi incatenati alle pareti di un manicomio.‭ ‬L’indomani il bambino non disse una parola e quando furono pronti a rimettersi in marcia‭ ‬si voltò a guardare il punto in cui si erano accampati per la notte e disse:‭ ‬Se n’è andata,‭ ‬vero‭? ‬E lui rispose:‭ ‬si,‭ ‬se n’è andata.

Erar




WhiteRabbit



08 giugno 2008

"A Severe Insult to the Brain..."


"Solo quattro cose mi interessavano: leggere libri, andare al cinema, ballare il tip tap e fare disegni. Poi un giorno mi misi a scrivere, ignorando di essermi legato per la vita a un nobile ma spietato padrone. Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l'autoflagellazione"

- Truman Capote-


L'estratto qui sopra sembra un referto medico, il referto medico di un libro che Capote cominciò ad organizzare nel '68, "Preghiere Esaudite". Fino al '72 mise insieme ritagli di facce, conversazioni, situazioni che aveva appuntato dal 1943 e che si mischiavano a diari, lettere sue e di altri. Questo ennesimo giro di roulette, dopo i sei anni trascorsi per la stesura di "A sangue freddo", doveva diventare niente meno che l'equivalente contemporaneo de "Alla ricerca del tempo perduto" di M. Proust. Il suo intento: levare le maschere sapientemente costruite dal chiacchiericcio improfumato dell'aristocrazia e della café society.
Nel '75 e nel '76, "Esquire" pubblicò quattro capitoli del libro e lo scrittore divenne un Giuda per i suoi personaggi reali, che ora si sentivano raggirati da un pugno di carta. Pure, nella prefazione di "Musica per camaleonti" Capote scrisse: "La cosa riguarda i rapporti sociali, non i meriti artistici. Dirò solo che uno scrittore può lavorare unicamente con il materiale raccolto grazie ai propri sforzi di osservazione, e non gli si può negare il diritto di farne uso. Condannatelo, ma non negatelo".
Allo stesso tempo "Preghiere Esaudite" stava diventando una fossa di parole . Rileggendolo, infatti, Truman cominciò a dubitare della struttura del testo, finché riesaminò tutto quello che aveva pubblicato fino ad allora:"Conclusi che mai, in tutta la mia esperienza di scrittore, avevo fatto erompere tutta l'energia e il godimento estetico insiti nel materiale. Perché? Il problema era: come si può riunire felicemente in una sola forma - diciamo il racconto - tutto ciò che si sa di ogni altra forma di scrittura? Uno scrittore dovrebbe avere tutti i suoi colori, tutte le sue capacità sulla medesima tavolozza per poterli mescolare".

Così Capote ricominciò tutto da capo, reimparò come era possibile far stare al mondo le sue storie, e nella stessa prefazione scrisse di esser finalmente giunto ad uno stile, di aver modificato l'atteggiamento verso l'arte e la vita, ma soprattutto la visione della differenza tra "ciò che è reale e ciò che è veramente vero".Probabilmente però, dopo l'uscita di "Musica per camaleonti", frutto di quel lungo periodo di gestazione, le parole avevano cominciato a franare di nuovo nella fossa. Infatti, nell'introduzione a "Preghiere Esaudite", l'editore, Joseph M. Fox, racconta di come, dopo la pubblicazione dei primi quattro capitoli, Truman non avesse più mostrato una sola riga del libro. Spesso, gli capitava di annunciare ad un intervistatore di averlo terminato, e che nel giro di sei mesi sarebbe stato pubblicato dalla Random House che, ovviamente, non aveva mai visto il manoscritto. Pure, dopo la sua morte, non si trovò traccia di "A Severe Insult to the Brain" e dell'ultimo capitolo che, sempre nella prefazione su citata, diceva di aver già portato a termine. Tuttavia, durante gli ultimi sei anni di vita, discuteva spesso delle parti mancanti, citava brani di dialogo sempre identici a distanza di mesi o addirittura anni, mentre le sue parole se ne andavano via inzuppate nell'alcool e intontite dalla droga. Allora Fox gli chiedeva di vedere uno dei capitoli, e Truman prometteva di inviarlo il giorno seguente. Alla fine di quel giorno diceva che aveva bisogno di tempo per batterlo a macchina, si impegnava per il lunedì successivo, e arrivava alla scadenza per sparire dalla circolzione una settimana o più. Alcuni credono che la parte mancante del romanzo si trovi in una cassetta di sicurezza, forse in uno stipetto del Deposito degli Autobus Greyhound di Los Angeles, altri che lo scrittore non avesse steso più una riga dopo il '76, e altri ancora che i fogli perduti siano nelle mani di qualche ex amante. Per ora però, solo una cosa è certa: la roulette continua a girare, senza gli occhi di Capote fermi a guardare dove si fermerà la pallina...




WhiteRabbit