13 settembre 2008

"Il Vizio della Storia ..."



Ebbene,‭ ‬alla storia,‭ ‬a quanto pare,‭ ‬occorre allegare‭ ‬un libretto delle avvertenze.‭ ‬Sopra bisognerebbe specificare che,‭ ‬somministrata ad un politico,‭ ‬può produrre gravi effetti collaterali.‭ ‬Un sintomo,‭ ‬abbastanza nocivo,‭ ‬lo abbiamo visto ieri a piazza San Paolo,‭ ‬divenuta luogo di contagio,‭ ‬in occasione della commemorazione del‭ ‬65°‭ ‬anniversario della Difesa di Roma.‭ ‬Il malessere si è palesato sulla bocca del ministro Ignazio la Russa, intervenuto prima del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cui è toccato rimediare con un pronto soccorso. Precisamente, con il suo intervento, il capo dello stato ha cercato di alleviare un attacco di revisionismo. "Farei un torto alla mia coscienza - ha dichiarato infatti il ministro - se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell'esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia". Già, patria. Fa bene il ministro La Russa a parlarne, perché la coscienza italiana pende da quella parola, ne è drogata. Talmente assueffata da non ricordare che nella patria, ci può finire di tutto. Come, del resto, tutto può finire nel soggettivismo. Su questo, riflettendo obiettivamente, saremo tutti d'accordo. Allora, è bene domandarsi quale fosse questa patria coraggiosamente difesa dai repubblichini di Salò.

Il sentimento nazionale che siamo chiamati a rispettare, è quello di una repubblica che teneva in convalescenza i valori e le istituzioni di un regime recalcitrante, quello fascista. Una dittatura intessuta su logiche di squadrismo e razzismo, soddisfatte da un invasivo sistema di organizzazioni collaterali, volte al soffocamento di scomodi individualismi. Ovviamente, il patriottismo, veniva evocato anche in quegli anni, in Italia come altrove, ovattando la realtà con nazionalsmi ubriachi di se stessi. Ne abbiamo avuto prova nel '36. Allora, l'amore per il paese ci univa nell'esaltazione del tanto desiderato posto al sole nelle terre etiopi, stordendo l'attenzione dai disastrosi costi umani ed economici di quell'invasione. Di più, per la preservazione dello stato, abbiamo italianizzato la popolazione slava, per disinfestare la patria da una cultura parassitaria, ragionevolmente relegata dietro il filo spinato dei campi di concentremento. Gli stessi di cui non ci vergognamo, perché poco o nulla se ne sa, nonostante costituiscano un elemento storicizzante di vitale importanza per capire la morte degli infoibati. Quelli che rivendichiamo e piangiamo ogni 10 febbraio, come martiri di una brutalità primordiale, che solo alle logiche della brutalità risponde. Formiamo la nostra coscienza rincorrendo "la patria", una parola svuotata come l'immagine di una serigrafia. Una parola che non dà mai risposte, perché non viene annoiata dal fastidio della domanda. Intanto, la nostra storia viene bivisezionata dei fatti che ne scuotono il corso, poi manipolati dai sentimentalismi della fiction e di certo documentarismo, dove la dimensione pubblica dei protagonisti passati abdica allo sviolinare di quella privata. Noi, nel frattempo, ciondoliamo imbambolati le teste, dove tutto è lo stesso e il contrario di tutto, e per ricordare basta ficcare la mente dentro una manciata di virgolettati.





WhiteRabbit

Nessun commento: