07 settembre 2008

"Ceci n'est pas une pipe..."



Il WhiteChapel




A Division Street l'aroma del sesso si appallottolava all'odore del carburante che usciva cotonato dalle marmitte opalescenti. Queste borbottavano mentre le macchine si accostavano ad ogni palo, viziato della presenza di guardiane che marcavano il loro dominio rumoreggiando con tacchi a spillo laccati di rosso. Quando i vetri traslucidi delle auto si abbassavano, quelle puttane versavano i loro seni dentro ai finestrini, e con un sussurro lasciavano rotolare su quella carne succulenta il loro prezzo. I muri delle strade erano tatuati di insegne purpuree che abbordavano maliziosamente la vista. Se ne stavano appese sopra vetrine sconce, sigillando gli orgasmi che grondavano dalle pareti di case chiuse, stripclub e bordelli. In un vecchio cinema per adulti le patte dei calzoni commentavano tristemente vecchi film, mentre il proiettore rimpinzava di corpi annodati il grande schermo. Chi non aveva soldi, trovava sempre un volantino invitante sdraiato su qualche lampione, che aspettava di essere strappato e portato via, dentro qualche camera buia e solitaria a regalare piacere di seconda mano. Dietro ai palazzi, le canne fumarie delle fabbriche esalavano colonne di fumo bitorzolute che si stracciavano al passaggio del vento, mentre la luna, rosa, sembrava un uncino incastrato nel cielo. Era da queste parti, al White Chapel, numero 254 di Division Street, che quella notte avrei concluso il mio lavoro. Si trattava di un casino di lusso. Nel salotto principale, le palline argentee scorrazzavano nevrotiche nelle roulette, saltellando indecise sul conto in banca di questo o quel giocatore. Il fumo delle sigarette galleggiava sopra le fish ammonticchiate sui tavoli da gioco, pregno dei segreti silenti che stavano raccolti sulle lingue umide di vino rosso di chi avrebbe scoperto la prossima carta. La luce friggeva nei cristalli ammassati sui lampadari. Ogni tanto, qualche signorotto si allontanava dagli altri, si sdraiava sui salottini di velluto e chiamava a casa, imboccando il cellulare di bugie. Alcune donne, con i corpi riposti dentro tuniche da suora, governavano le scommesse, e rintanavano la città dietro i drappi pesanti delle veneziane, che in lontananza, da fuori, sembravano grosse tane per topi.
Il proprietario era un travestito. Diane, La Signora. La sua pelle era come una scorza d'arancia molliccia attufata dal trucco. Le labbra, carnose ed altere, erano zuppe di rossetto rosso. Un paio di occhiali da sole, esageratamente grandi, le ombrava gli occhi pepati di ombretto e le ciglia grumose di rimmel, mentre il fard le incavava le guance. I suoi capelli erano un incastro pacchiano di ricci che stingevano sul cranio. Le catenine d'oro si impigliavano tra le grinze del suo collo, e intingevano le loro perle tra i seni ammucchiati sotto una casacca scollata, sulla quale si affollavano fiori colorati. Sedeva sempre davanti ad un tavolinetto con zampe di leone dorate, La Signora, sul quale teneva un giradischi d'epoca. Per tutta la sera, le sue dita macchiate, pasticciate di rughe, percorrevano una collezione di vinili, e infine ne sfilavano uno dal mucchio. Allora la puntina del grammofono raschiava via la musica da un vecchio disco. Si trattava ogni sera di note lamentose, che sembravano resuscitare stancamente dal pentagramma e che all'improvviso stridevano, si torcevano su se stesse, trainate a fatica da voci luciferine. Si compiaceva così, Diane, irritando i suoi clienti con quella musica ansiosa, dolente, stonata, mentre la tensione si condensava in sudore sui loro volti stanchi, schiavi di una figura.
Come per le ultime tre settimane , quella notte per tutti, anche per lei, sarei stato "Il Dottore". Avevo il mio gessato, una camicia ben stirata, scarpe tirate a lucido e, naturalmente, la mia cravatta, che strozzava al punto giusto la verità, perché, qualche volta, trottava dalla gola fino ai bordi delle labbra, facendomi ghignare un po' troppo. Soprattutto avevo la mia borsa di pelle, svuotata di antidepressivi e garze. Tutte cose che insieme a storie di stomaci squartati, cuori molli e tette scoppiate, avevano imbottito il fantoccio che avevo messo tra i presenti per quasi un mese : un medico affermato di mezza età, con una moglie stressata e una governante pettegola, che se ne stavano a cuccia dentro una buona scusa tutte le sere, mentre il maritino si prendeva i suoi spazi.
Quella volta, prima di uscire dalla pensione, avevo lucidato con cura la Bimba e, più importante, mi ero accertato che fosse carica, perché non mi abbandonasse nell'attimo decisivo, come poco tempo prima. L'ho avvolta lentamente in un camice che avevo rimediato da un amico chirurgo, e ho riposto il tutto nel fondo della borsa di pelle.
Verso le due di notte le suore chiusero i giochi. Per quell'ora le camere da letto si svuotavano degli altri clienti. Avvocati, imprenditori, notai, smettevano di spalmare i loro stomaci molli sui dorsi marmorei dei ragazzi, di risucchiare e strozzare giovani verghe con i buchi tra le loro natiche. Riordinavano le loro facce ridicole, sformate dall'eiaculazioni, e finivano di latrare mentre masticavano piccoli seni con le mani. Allora recuperavano la frustrazione e la noia, insieme alle mutande e ai vestiti sparsi per terra, per poi rivestirsi di tutto. A quel punto le sorelle si avvicinavano ai giocatori. Tiravano fuori dalle tuniche dei rosari di onice, dai quali pendevano grosse chiavi d'oro, sulle quali erano incisi nomi di uomini e di donne. Una di loro venne da me e mi fece cenno di seguirla. Mi portò in un corridoio profondo, dove la luce delle lampade ad olio spolverava dal buio il rosso delle pareti. Superammo diverse porte. La donna si fermò all'improvviso. Qualche cliente stava ancora uscendo dalle camere. Per qualche minuto rimasi a guardare una grossa tela. Raffigurava un putto intirizzito dentro una pozza di fango, privo di sensi. Aveva le membra arrovellate, violacee. Dalle orbite incavate sciabordava l'ombra, nella quale verminavano boccoli bianchi che sbavavano densi fili di sangue. Le labbra sembravano due piccoli spicchi di un frutto avariato, tra i quali pendeva una lingua blu. Intanto, un vecchio mulo maciullava tra i denti gialli i nervi delle sue ali sgarrate.
Attesi ancora un po', poi la suora riprese a camminare lentamente. Si fermò davanti ad una delle porte, ed io con lei. Là, su una lastra d'oro, c'era scritto un nome, lo stesso della chiave. "Cosey Mo", la mia ragazza.
La suora infilò la chiave del rosario nella serratura. Poi, si accese una Black Stones. Strappò dal filtro la prima boccata di fumo. Si voltò e andò via. Io entrai nella stanza da letto. Uno specchio barocco stava inclinato in avanti, con i bordi agguantati da rampicanti e fiori d'oro sporco. Rifletteva il piano di un cassettone, sul quale stavano rovesciate boccette di vetro paffute e smilze che urinavano pozze di profumo sul legno, dove gingillavano tappi argentei e ramati. I piumini del trucco erano incrostati di pustole di cipria , mentre le punte dei rossetti si squagliavano sotto la luce calda di un lume. Pastosi fili di smalto girovagavano tra pennelli e vasetti di ombretti crepati. Ad illuminare la stanza erano solo due grandi lampade a stelo, con la testa intrappolata in un alone vanigliato di luce. Al centro della camera se ne stava un grande letto a baldacchino dalle tende sanguinee, con le lenzuola sformate da amplessi ormai appassiti. In alto, sopra i cuscini, era appeso un vecchio quadro dalla cornice pesante, piena di rivoli dorati. Ritraeva due ragazzine, due gemelle, in piedi l'una accanto all'altra, con le braccia ciondolanti. Entrambe con un vestito di velluto nero dal colletto bianco. Entrambe con calze chiare ricamate. Entrambe con un caschetto corvino, e grosse orbite colme di grossi occhi di un blu slavato. Una sorrideva. L'altra aspettava seria. Al lato del letto, una poltroncina bohème dai cuscinetti vermigli, sulla quale stava sbatacchiato il corpo della ragazza, intontita dopo l'ennesimo uomo e l'ennesima dose. La sua pelle era esangue. Sul suo corpo le labbra scarlatte , tumide, sembravano una macchia di sangue dimenticata dopo un delitto. Guardavo i suoi capelli scuri, ondulati, che le si infilavano dappertutto come anguille; anche in mezzo alle gambe divaricate, dove il suo sesso stanco riposava sotto tanti strati di tulle e pizzo. Gli occhi, con le pupille dilatate, colavano ai bordi delle palpebre. I suoi seni stavano sbattuti in un corpetto cremisi mezzo slacciato, mentre le braccia, esili, le ricadevano sulla gonna bombata dello stesso colore. i polsi erano legati insieme da un nastro rosa ritorto, che si mischiava alle sue dita aggrovigliate. Sulle gambe portava calze a rete sgarrate . Su uno dei due ginocchi ossuti aveva una giarrettiera ben stretta con un fiocco rosso, mentre i suoi piedini si storcevano dentro scarpe da bambola verniciate. Io la contemplavo ossessivamente e pensavo se sarei riuscito ad estorcere tutta la sua orribile bellezza. I miei occhi palpavano le sue membra fanciullesche da tutte le prospettive, fiutavano ogni ombra irripetibile nei giochi di luce delle sue forme incerte, così tremendamente sfatte. Erano subdoli, insolenti, ingombranti, desiderosi di strapparle via tutte le linee del corpo. Volevano ingoiare la sua immagine, e quando l'avessero fatto, l'avrei umiliata, annullato i residui della sua volontà in un solo momento, uno soltanto.
Presi la borsa da dottore, e mentre il rumore della cerniera mi stava addosso come un moscone, sentivo le mie mani e i miei occhi imbrattati del senso di colpa. Tirai fuori la bimba, ancora perfettamente avvolta nel camice. Facendo attenzione la liberai dalla stoffa bianca, e la puntai contro il corpo della fanciulla. Ora Il mio occhio destro stava quasi spiaccicato nel mirino, famelico. Svicolava tra le ossa sporgenti della piccola puttana, ruzzolava sui suoi zigomi, per poi accovacciarsi sui lividi che macchiavano le sue braccia, vicino ai buchi delle siringhe. Si bagnava del suo rossetto, si assopiva tra i merletti del suo vestito. Tutto alla ricerca del dettaglio giusto, quello che avrebbe mosso il mio indice, che mi avrebbe dato finalmente la freddezza per premere.
Cosey Mo stava tutta nella mia retina, mi fermai. Stavo per portarle via tutto ciò che era in quel preciso momento: un pezzo di carne che era stato apparecchiato dentro una camera da letto, e che ora stava schiaffato su una poltroncina rossa come un avanzo del sesso.
Mirai con decisione. Premetti. Sentii lo scatto. Lei non lo sentì. Non aveva le forze per accorgersi di niente.



Jude e Lucy




Nell'appartamento le urla dai marciapiedi di sotto si schiaffavano sui vetri incrostati e colavano giù, annebbiando i timpani. Le lampadine in casa pulsavano la luce con la forza di cuori cardiopatici. In cucina, nel frigorifero, i cibi precotti stavano imbalsamati nel ghiaccio, mentre la ragazzina mungeva tubi di maionese e senape su toast bruciati.Il pavimento era impiastrato di pozze di spezie, alcool, e sugo, nelle quali strofinava i piccoli palmi dei piedi nudi, per poi abbandonare fetidi scarabocchi in tutte le stanze. Nel lavandino acqua sporca, sulla quale galleggiavano mosche morte, infilandosi nel grasso di piatti e padelle . Lui strizzava i filtri ingialliti delle sigarette nella gommapiuma del divano, mentre le pupille gli ciondolavano sulla parete ammuffita e la televisione gli tirava addosso qualche pubblicità. Tutto finché si alzava preso dalla nausea, e si chiudeva in bagno per far digerire alla tazza il suo vomito. Jean arrivava ogni sera alle undici, con una siringa sterilizzata e quel tanto di eroina che scuoteva gli occhi annacquati del suo docile cliente. Allora Jude , con la mano scarna, tremante, lasciava scodinzolare qualche dollaro rinsecchito. Se i soldi non bastavano, per pareggiare i conti, Jean gli mandava a casa qualche donna da rovistare un po' con la lingua, o lo usava come palo per uno dei suoi affari. Altre volte, era crisi di astinenza. In quei casi Jude si chiudeva a chiave nella sua camera, perché la figlia non vedesse. Da fuori lo immaginavo. Il corpo incagliato nelle urla, che rantolava ammantato in una placenta di puzza e sudore. Dentro le orbite un intruglio di occhi, lacrime e sangue, e in bocca la lingua a mollo nella bava. Le dita nevrotiche che grattando cercavano di racimolare carne sotto le unghie nere, e la testa schiantata contro il muro per anestetizzare il cervello. Intanto, fuori, Lucy raccoglieva e buttava via le siringhe usate dal papà, sparse sulla moquette madida di Jack Daniels. Spesso usciva da sola. Andava in un supermercato e ingravidava le grandi tasche della giacca di Jude di scatolette rubate, per lo più pezzi di carne incastrati dentro cubi di gelatina flaccida. Sui marciapiedi, dei neri stavano spalmati nelle cabine telefoniche fumando crack, con l'aria di grossi insetti da esperimento intrappolati dentro barattoli da laboratorio. I poliziotti si ficcavano nei vicoli. L'asfalto avvampava di calore le loro divise. Le lingue sode si bagnavano su quelle degli spacciatori, che con le dita tozze soppesavano i glutei contratti delle guardie. Le donne strascicavano le loro membra stufe sulle brande sfasciate di monolocali incolori. I pori della loro pelle esalavano l'odore chimico dei detersivi, mentre gli occhi spurgavano trucco nero che macchiava coperte di lana dalle maglie snervate. Per strada, su un filo della corrente, si attorcigliava la coda scorticata di un topo morto e unto, che dondolava appeso a testa in giù. I cavi elettrici rigavano il cielo, come per cancellare nuvole sbagliate.
Jude aveva fregato molte persone. La bocca, bieca, aveva cantato i nomi sbagliati. Il suo corpo sballottava da un crimine all'altro rovesciando fiaschi e sentimenti. Le mani callose avevano ammanettato i colli dei suoi capi, mentre ne vedeva i volti scoppiare di rosso. Le sue dita si sciacquavano fra i loro bigliettoni e tra le gambe delle loro mogli. Lungo i fili delle cornette aveva fatto scivolare trasfusioni di minacce e tradimenti. I suoi timpani, ormai, erano un reliquiario di urla straziate.
Adesso, nello stato in cui era, non serviva quasi più a nessuno, e in molti volevano arrivare prima di una siringa a spedirlo dritto all'Inferno. Sembrava che ogni puntura dovesse addormentargli il corpo, perché il suo assassino potesse entrare silenziosamente in casa, chinarsi su di lui, e finalmente aprirgli il petto scavato.
Non impiegò molto a capire perché mi trovavo lì. Gli spiegai quello che dovevo fare. Lui stava sbattuto sul letto. Sotto la schiena un lenzuolo sgualcito imbrattato di urina. La mano inzuppata in una ciotola piena di latte e cereali. Non protestò, non mi aggredì, non disse niente. Chiese solo di poter scegliere lui il momento. Per me, andava bene. Sapevo che di scappare non gl'importava nulla. Mi avrebbe permesso di portare a termine il lavoro. Da allora, e per settimane, andai ogni giorno a casa sua. Con me avevo sempre la Bimba. Entrambi in attesa.
Per Jude, il concepimento di Lucy era un ricordo arrangiato. Rivedeva le labbra livide di una prostituta, la Gauloise Rouge che penzolava. Poi, le giarrettiere strappate della donna del suo ultimo socio, i seni intirizziti di una spogliarellista, gli spasmi sfiniti di una cameriera e la pelle fradicia di una fioraia. Mischiava tutto, e alla fine riusciva a mettere insieme un coito abbastanza decente dal quale far sbucare la figlia. Lucy lo amava.
Ogni tanto, nel salotto, ballava per Jude. Da una cesta prendeva un tutù rosa, con il tulle tutto tarlato. Lo assestava con uno spago attorno alla vita. Tutte le volte, ricadeva smunto sulle piccole gambe sbucciate, come un fiore bagnato. Attorno ai calzini sgarrati, che strisciavano dietro ai suoi piedi come bava di lumaca , incrociava nastri di plastica rossi, di quelli che corrono sulla carta da regalo. Alla fine, appuntava il ghirigoro sulle caviglie con un fiocco striminzito. Usava degli stecchini da cucina per accomodare i capelli dorati, creando sempre un sofisticato inguacchio. Quando era pronta, si accovacciava davanti ad un vecchio carillon. Lo caricava, e quello iniziava a singhiozzare il suo motivetto. Allora capitava che Jude cominciasse a rispuntare fuori dal buco che si era fatto, e che trovasse ad attenderlo Lucy, che piroettava e saltava tra bottiglie vuote, mucchietti di cenere e cucchiai roventi.
Jude recintava le notti della ragazzina con le sue braccia e le sue gambe, tra le quali la figlia cestinava gli ultimi respiri della giornata, mentre si addormentava.
Rastrellava via i capelli dal volto chiaro di Lucy con le dita, e le raccontava una filastrocca per tamponare le finestre di fronte, dalle quali uscivano fiotti di grida. I magnaccia svincolavano le cinte di pelle dai passanti dei calzoni. Le schioccavano sulle schiene delle loro donne, che sbattevano sui fornelli arroventati, dove bolliva l'olio rifritto di cene riscaldate.
Intanto Jude recitava la solita storiella strampalata alla bambina "Immaginati in una barca sul fiume - le diceva - con alberi di mandarino e cieli di marmellata. Qualcuno ti chiama, tu rispondi con molta lentezza. E' una ragazza con gli occhi di caleidoscopio. Fiori di plastica gialli e verdi torreggiano sul tuo capo. Cerchi la ragazza col sole negli occhi, e scopri che è andata via. Seguila ì fino a un ponte, vicino una fontana dove la gente sui cavalli a dondolo mangia torte di caramella, e sorride quando ti apri un varco in mezzo ai fiori che crescono così incredibilmente alti. Un taxi fatto di giornali si avvicina lungo la spiaggia e aspetta di caricarti. Tu ci sali con la testa nelle nuvole e parti. Immaginati su un treno in una stazione, con facchini di plastilina e traversine che sembrano di vetro, e a un tratto ecco qualcuno avvicinarsi al cancelletto girevole. E' la ragazza con gli occhi di caleidoscopio. "
Fu un pomeriggio, alle sei e trentaquattro, che Jude mi portò con lui nel bagno. Aveva deciso. Le mattonelle comprimevano tra loro tocchi di pattume melmoso. Sembrava che le pareti bianche si fossero pisciate sotto. Lo specchio, pieno di ditate, riportava spaccature e ferite da rossetto, insulti che gli lasciavano le donne, dopo essersi scrollate e aver tirato su panciere di pizzo slabbrato . Nel lavandino umido, si coagulava la polvere di pasticche di valium, metadone e morfina. Il rubinetto somministrava gocce d'acqua allo scolo. Per terra, uno straccio strizzato e un secchio, rovesciati dentro un pantano di sapone lurido.
I cassetti, sbattuti contro le piastrelle traslucide del pavimento, rovesciavano tubi di dentifricio spappolati, pettini sdentati e batuffoli anneriti imbevuti di alccol.
La coda della doccia se ne stava tutta floscia nella vasca. Jude girò le manopole squamate di ruggine per riempire quella bagnarola. Le tubature iniziarono a gorgogliare. Uscirono strappi d'acqua che precipitarono sul fondo crepato di ceramica bianca. Intanto, il suo corpo spolpato si sbucciava dei vestiti bisunti, sfibrati. La pelle era una pellicola rosastra incollata alle ossa, dove i muscoli e i grassi si erano completamente prosciugati. Le membra erano chiazzate di ematomi violacei ed emanavano un odore stantio di colonia.
I noduli di polvere si annidavano tra i capelli pastosi che gli intarsiavano il cranio. Io stavo con le spalle contro il muro freddo, dietro una corda dove un disegno di Lucy sbrodolava gocce di tempera, e mollette di plastica soccorrevano stracci fiacchi. Vedevo il vapore caldo dell'acqua ovattare la faccia e lo stomaco di Jude, incipriargli i colori e le linee sghembe del corpo che affossava lentamente l'acqua. Afferrai la Bimba. Lo puntavo. Le gambe aperte. Una verga sfiorita tra peli ispidi.
Dallo sgabello accanto alla vasca prese il tubicino di lattice, per dissotterrare dai tessuti dell'avambraccio la vena che avrebbe deglutito il cucchiaio di eroina. Braccava la siringa tra l'indice e il medio. Stava per farlo, e anch'io.
Poi, Lucy. Iniziò a sbattere i piccoli pugni contro la porta del bagno. Le sue ciglia nere scrollavano lacrime. Chiamava Jude, voleva che uscisse, che l'aiutasse a fare i compiti. Le urla le morivano addosso. Il padre stava facendo ronzare l'ago vicino alla pelle. La bocca di Lucy cominciava a ciccare piccoli mugolii a terra. Io continuavo a puntarlo. Lucy in silenzio, si era accucciata dietro la porta. Il senso di colpa. Jude premette, pompò tutto dentro. Gli occhi blu salirono su, al piano dimenticanza. Le labbra, aperte, avevano preso in bocca un orgasmo. Lucy chiamò: "papà".Dovevo premere. Premetti anch'io. Jude non rispose.



La Pipa




La stanza era gelida. Le lampade appiccavano la luce sanguinolenta alle pareti spellate e ai corpi catturati, stesi sui fili di ferro ad asciugare, sparsi a terra o a mollo nelle vasche d'acqua. Dovevo chiudermi là dentro, esaminarli clinicamente uno ad uno. Scoprire se il mio indice aveva fermato la loro esistenza nell'attimo in cui i sentimenti ciancicavano la loro faccia, mentre le rughe montavano gli zigomi e incastonavano i globi oculari. Ogni espressione doveva ingolfarsi sui loro volti. Sulle parti del corpo che avevo rubato, doveva cristallizzarsi un indizio essenziale della condizione o della fisicità di una persona. Qualcosa che squarciasse lo sguardo altrui, per ferirlo o elevarlo alla bellezza, quando avrei reso pubblico ciò che avevo fatto.
In quei mesi avevo finito il mio ultimo lavoro. Ora, stavo malissimo. Dopo Cosey, Jude e Lucy, crollai. Per settimane avevo vissuto con ruffiani, spacciatori, boss, donne e uomini che transitavano su aghi sterilizzati. Tra le capsule d'oro dei papponi vedevo sfilacciarsi bocconcini di carne stoppacciosa, che filtravano i ghigni con cui punteggiavano racconti di ragazzini sodomizzati. Vedevo mocassini lucidi sturare i sedili posteriori delle Chevrolet, tirando calci secchi contro i viados. Li guardavo stramazzare a terra, pestati di botte e trapuntati di lustrini argentei schizzati di sangue cremoso. E poi, ladruncole che appallottolavano le mani in mezzo alle gambe per raccattare calore, sdraiate sulle panchine delle metropolitane a tarda notte. I corpi, con il loro tremore convulso, che macinavano le cartacce oliose accatastate sulle lastre di metallo freddo. Io non interferivo. Nessuna reazione. Non facevo niente. Tranne, ovviamente, guardarli. Li guardavo dietro al mirino. I miei occhi erano invasivi, si accanivano sulle immagini di quegli uomini e quelle donne. Il mio corpo, intanto, li lasciava marcire. Verso di loro si muovevano solo le mie pupille, sentinelle addestrate che sondavano le figure umane, in attesa di incappare nel momento decisivo dell'abiezione o della sofferenza. Avrei regolato la mira al loro primo segnale , fermando la vita di ognuno. Li imbalsamavo. Così la vergogna, la povertà, l'indecenza dell'attimo in cui gli mettevo la bimba addosso, si sarebbero mischiate alle loro membra per sempre. Lo facevo perché gli altri, scioccati da quello che avrebbero visto, potessero prendere coscienza di quella gente. Assimilarla a partire da uno sguardo. Volevo che ognuno di loro, nelle condizioni in cui lo esibivo, recasse un turbamento tale, alla vista di chi guardava, da inquinargli il sangue. Le urla, che gli spettatori avrebbero letto sulle bocche degli uomini che mostravo, dovevano ficcarsi nelle loro bocche. Il lividi delle bambine intorpidire le loro schiene, i rossetti delle bancarelle sbavare le guance delle puttane, e le loro guance. Desideravo che le macchie dei miei disgraziati rovinassero i loro vestiti e che i tacchi troppo alti delle mie fanciulle indolenzissero i loro piedi. Volevo che la vista li trascinasse in un immaginario e insostenibile rapporto carnale con ognuna di quelle persone.
Intanto, nei miei occhi sentivo ammucchiarsi capelli, rughe, mani, colli. Digrignavo i denti. Cercavo di ributtare quelle immagini insieme alle lacrime. Era inutile. Labbra leporine, bocche che accasciavano bava sulle cornette dei PeepShow, orbite spolpate, ragazzi scoiati violentemente dei vestiti. Quelle figure fecondavano le mie retine figliando incubi, nei quali rimbombava l'eco della segreteria telefonica e l'accento messicano della donna delle pulizie, che mi urlava di aprire quella fottuta porta. Le immagini se ne fregavano, e continuavano a strappare i nervi ottici dei miei occhi ingordi, maledettamente vogliosi di guardare.
Quando mi calmavo un po', mi chiudevo nella camera. Dovevo occuparmi del lavoro che avevo lasciato in sospeso prima della partenza.
Rovistai tra tutte le persone che non avevo ancora esaminato, e mi occupai di tutti i dettagli rimasti trascurati. Cominciai da Caldero, il Clown. Quando lo vidi la prima volta stava stravaccato tra sacchi paonazzi e deformi. Sembrava che fosse scivolato su una macchia grumosa di confettura di ciliegie, dopo lo spettacolo terribile di quella sera. Adesso lo tenevo tra le mani. Era tutto impataccato dei pomodori succosi che gli avevano spiaccicato addosso. La parrucca stava cadendo dalla testa calva, come una palla di pistacchio da un cono biscottato. Prima di cedere al sonno, aveva pianto. Le ciglia erano fradice e gli occhi rigonfi. Le lacrime gli avevano impoverito tutto il trucco, che si impastava ai baffi di vino sopra la bocca irrimediabilmente triste. Potevo tenerlo. Continuai. Le mie mani si fecero spazio scansando diversi volti, busti, gambe. Alla fine, controllai il braccio della vecchia Mimosa. Era stravolto di vene sulle quali la pelle scendeva floscia, con l'aria di una colata di cera. Le unghie ingiallite erano smaltate di arancio, mezzo smangiucchiato. Si era arredata le mani con guantini smerlettati di centrino bianco e con grossi anelli di bassa bigiotteria, sui quali si abbottonavano grasse pietre di plastica blu e verdi. Tra le dita, il regolamento di un ospizio. Purtroppo le parole erano tutte sbiadite, sfuocate. Gettai via il braccio. Poi, tirai fuori dal mucchio il barbone della stazione di MoonDog. Ricordo che lo trovai in piedi, accanto a un palo della luce. Era pieno giorno. Sulla sua faccia nera divaricava un sorriso al cielo. i Suoi denti, battendo all'improvviso, ghigliottinavano le parole di una preghiera. Le braccia si agitavano in alto. Sembrava che Dio gli fosse sfuggito di mano come un palloncino. Lo misi da parte. Dopo, cestinai un volto e un orecchio scarnificato dagli insetti. L'avevo trovato in mezzo a dei ciuffi d'erba alla fine di un lavoretto. Sopra il Signor Telli, uno sceneggiatore fallito che recitava i suoi copioni da un capolinea all'altro dei tram, era finita Solange, la burattinaia cieca. Sotto la sua sottana di zingara rotolavano palle di filo lanoso e rocchetti di legno scorticati, coi quali rammnendava i suoi pupazzi di pezza, presi a sassate da qualche monello. Riposi lei e Telli insieme a Caldero.
Mentre stavo studiando un ventre sentii bussare timidamente alla porta. Aspettai che se ne andassero. Niente. I pugni continuavano a pioviccicare sul legno avvolti in una vocina debole, che sbriciolava parole. Non riuscivo a concentrarmi. Ero stufo. Presi la bimba e serrai la camera. Sganciai il chiavistello dalla porta di casa. Girai la chiave nella serratura, che risvegliò le tre mandate dietro alle quali mi ero barricato. Aprii svogliatamente. Sulla soglia, accucciato sul mio tappeto rasposo, un bimbetto. Tra le gambe stringeva un grosso barattolo di zucchero. Forse, doveva restituirlo all'inquilina di fronte. Aveva commesso un errore. Affondava le manine umide di saliva nel contenitore di vetro. Le stropicciava sul viso e sulla lingua, infestandosi le guance rosate di granuli dolciastri. Non potevo resistere. Mi chinai e puntai la bimba di fronte alla sua testolina golosa. Il bimbo alzò i grandi occhi verde pastello. Guardò la mia bimba. Gli occhi terrificati. Accorciai la distanza tra me e lui. Le sue lacrime. Premetti. Premetti di nuovo. Nulla. Lo scatto non partiva. Maledizione. Cominciai a controllare la Bimba. Non capivo. Alzai lo sguardo. Il Bimbo stava filando sulle rampe delle scale. Guardai il tappeto. Della mia fotografia, non restava che un barattolo di zucchero rovesciato davanti alla porta di casa.





WhiteRabbit

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