10 gennaio 2008

"L'uomo che inventò Herbert L. Metthews..."


1957: Herbert L. Metthews siedeva in una delle corti del Quarto Potere, nel nevrotico e austero grattacielo del New York Times. Alla sua penna però, il lavoro per il consiglio editoriale, puzzava di convalescenza. Durante i vent'anni da corrispondente, i fogliacci per appunti del giornalista, avevano starnutito polvere da sparo, e le sue parole erano state nella penna come pallottole in una pistola pronta a sparare. Infatti, nel mezzo della guerra in Etiopia, e in Spagna nel '36, i suoi articoli erano diventati allergici all'oggettività. Il giornalista aveva capito che un corrispondente non poteva che partecipare alla battaglia, schierarsi da una parte con il suo taccuino, e raccontarne la particolare verità con passione e onestà. Ormai però, il suo cuore sembrava poter reggere solo i colpi delle dita sulle macchine da scrivere, condannandolo ad un giornalismo influenzato, perché vivo solo delle notizie di redazione.
1957: Fidel Castro era nascosto nella Sierra con i suoi uomini, imbavagliato e tenuto in ostaggio dalla sua morte. Una morte truffaldina, costruita da un'informazione assonnata e sottocritta dalla censura imposta a Cuba da Batista che, a quell'informazione, strizzava l'occhio. Nel paese tutti dovevano credere che Fidel fosse affondato con la Granma, la bagnarola dalla quale guardava la notte in cagnesco, tornando dall'esilio con i suoi ribelli. Tutti dovevano credere che la rivoluzione fosse rimasta incagliata e moribonda tra le mangrovie, e non ingrossare l'esercito di Castro per "Cuba Libre".
2006: "L'uomo che inventò Fidel" di Anthony de Palma, si è intrufolato in quel 1957, e le sue pagine hanno raccontato come Castro abbia salvato il giornalismo dall'influenza e Matthews, la rivoluzione dalle mangrovie.

Se il giornalismo aveva scavato la fossa a Fidel, il giornalismo doveva tirarlo fuori, e a New York, la penna di Matthews, si sentiva giusto un pò bugiarda a scrivere di Cuba da lontano. Stavolta il corrispondente, con il suo inchiostro e i suoi fogli stropicciati, poteva resuscitare un uomo. Questo era abbastanza per levare le coperte dai suoi articoli e addentrarsi nella Sierra, spacciandosi per turista.

Fu così, che nell'accampamento dei ribelli, il giornalista e il rivoluzionario sedettero l'uno di fronte all'altro, Castro per riprendersi la vita e Matthews la salute della sua penna, con uno scoop che odorava di sigaro cubano. Fidel se ne stava nascosto con venti uomini, armi povere e indifese e un piano politico che poco sapeva di se stesso, se non che la parola libertà gli piaceva parecchio. Tuttavia, egli parlò di nazionalismo e democrazia inebriandoli del suo carisma, col quale trasformò un pugno di ribelli che si muoveva ancora gattoni, nella prima colonna di un esercito inventato. Così, conquistata e un pò abbindolata, la penna di Matthews tracciò le prime righe della resurrezione, trepidante per il suo scoop, inconsapevole che in quello scoop Fidel risorgeva mito, e che nel mito sarebbe rimasta incastrata.


Tre articoli, e Castro avrebbe dato la sua morte in pasto alla carta stampata, mentre le redazioni che avevano sparso la notizia del suo decesso avrebbero messo fogli e scrivanie in castigo.
Tre articoli, e la rivoluzione avrebbe cominciato a sgranchirsi le ossa, risvegliandosi al suono delle maledizioni di Batista.
Tre articoli, e i fogli su cui scriveva Matthews non sarebbero stati più semplici pezzi di carta, ma tappeti rossi, sui quali si stendeva orgoglioso l'inchiostro più chiacchierato del momento. Quelle pagine credevano nel liberatore barbuto, in un nuovo corso demoratico e radicale. Prendevano sul serio una rivoluzione che se ne stava nascosta, ma in posizione di agguato alla dittatura e, in pochi giorni, americani e cubani cominciarono a nutrire la stessa fede. Quel mito finì col far arrossire la Casa Bianca che non concesse ulteriori armi al regime cubano. Le sue ripercussioni lasciarono la dittatura spaesata, mentre i ribelli entravano all'Avana senza incontrare resistenze.

Di lì a poco però, su quel mito la penna del giornalista avrebbe iniziato ad inciampare, e sarebbe uscita livida dagli anni successivi alla presa del potere di Castro. Le frasi di Matthews sarebbero finite accartocciate nelle mani degli americani, la censura avrebbe rapito parole ai suoi articoli, mentitori per la massa e veri soltanto per lui.
Castro, infatti, sembrava aver teso un tranello alla leggenda, un tranello che si chiamava comunismo. La rivoluzione aveva riposto il mito in soffitta, scrollandosi di dosso gli americani a suon di nazionalizzazione e riforma agraria. I pezzi di Metthews arrancavano sulla verità, sostenevano che il leader cubano non prendeva ordini da Mosca e che, nonostante qualche comunanza di intenti, i personaggi di spicco del paese potevano dirsi anti comunisti. Quando Castro si dichiarò marxista - leninista, scrisse che lo faceva solo per vantaggi politici, e che dietro l'etichetta del comunismo c'era solo fideismo. La verità non era più nei fatti, ma nel loro perché. Nel frattempo, le pagine dei maggiori quotidiani erano diventate zone di trincea, dalle quali le colonne del buon giornalismo puntavano tutte contro il Times. Matthews però, nonostante quanto accaduto a Cuba con l'installazione dei missili sovietici, credeva che solo guardando la situazione dal punto di vista rivoluzionario, si sarebbero sfidate idee comunemente accolte, ma di fatto inadeguate. Si sarebbe afferrata la complessità sociale del fideismo, e un risvolto radicale simile a quello della rivoluzione francese. A quel punto però, il giornalista finì a scrivere per i cestini del New York Times, con gli occhi del Fbi puntati addosso, mentre la testata cercava di rifare la pace con Washington.

Nel '67 diede le dimissioni, se ne andò con i suoi anni, la sua verità malmenata, non troppi quattrini, e la penna ancora testarda. Dedicò il tempo successivo alla stesura di diversi testi su Cuba e Fidel, potendo scommettere solo sulla sua impopolarità. Cercò di spiegare la sua onestà intellettuale. Come essa derivasse dall'aver fatto della rivoluzione il soggetto dei suoi pezzi e non l' oggetto, e di quanto si fosse impegnato ad analizzarla con lucidità. Per i più, quella fu l'ennesima espressione di un mito morto e troppo innamorato di se stesso per guardarsi criticamente. Oramai, erano dieci anni che Matthews scriveva esiliato e insultato dal giornalismo. Pure, fino alla fine, egli difese il suo lavoro. Un ammasso stanco di parole che, dal 1957, la sua penna aveva colto dalle labbra dei cubani e, soprattutto, da quelle di Castro. Su quelle labbra, tuttavia, le parole si vendevano spesso all'imbroglio, a quella rivoluzione che, come un serpente, cambiava pelle a seconda delle circostanze.
E forse il giornalista non capì questo, che la verità, una verità veramente vera, non c'era. Al momento della morte, egli era un rivoluzionario per i cubani, un giornalista annebbiato per gli americani e un corrispondente solo per se stesso, e per la passione, che certamente aveva seguito molto più della leggenda.
Poco prima dell'epilogo del suo libro De Palma ha scritto "Ciò che M. fece fu inventare Fidel come un'icona, un concetto che poteva rimanere sfuggente, sempre mutevole, inconoscibile, imperscrutabile e quindi, alla fine, invincibile". Forse, dopo più di trent'anni, per qualcuno Matthews sarà un mito...




WhiteRabbit

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