25 novembre 2007

"Mamma Genova"



Il 19 luglio 2001 la politica italiana ha iniziato a convivere in modo incosciente con un tumore, un tumore che si chiama Genova. Sono passati sette anni dal G8 e due esecutivi si sono susseguiti al governo. Entrambi hanno di fatto accresciuto il male, lasciando le cure ridursi a tante parole che, amareggiati, vediamo morire su loro stesse.
Ad avvelenarle e ridicolizzarle sono state anzitutto le indagini. Esse dovevano slegare la giustizia da falsi e calunnie, ma si sono svolte mentre gli indagati accoglievano spostamenti di carica o promozioni. A peggiorare lo stato delle cose, la recente bocciatura della commissione parlamentare di inchiesta per il G8, stroncata da centrodestra, Italia dei valori e dall'assenza dei socialisti al momento del voto.

Gli italiani però, e soprattutto quelli che nel 2001 a Genova c'erano, sul tumore continuano a mettere mano, desiderosi che la malattia sia curata e la loro dignità finalmente riscattata. L'ultimo intervento dal basso risale al 17 novembre scorso, in risposta all' appello lanciato dalla Comunità di San Benedetto e dai centri sociali liguri e del nord - est. La ragione è stata la richiesta di 225 anni di pena, per 25 manifestanti colpevoli di devastazione e saccheggio, in quei giorni di luglio. I pm di Genova, dopo numerose udienze, sono giunti ad una requisitoria. Secondo l'arringa non si può parlare di caccia all'uomo perpetrata dalle forze della polizia, mentre i manifestanti sono accusati di aver messo in pericolo l'ordine pubblico. Di qui, la pena di cui sopra.

Di qui oltre 50 mila persone, secondo gli organizzatori, che hanno risposto all'appello tornando a Genova. Una città che urla per Carlo, e chiede di essere liberata dagli spettri straziati che la popolano da sette anni. Essa ricorda i No global inzuppati di sangue durante la notte cilena, e non ammette che 25 persone siano usate come capri espiatori, per quella che ai più, appare una condanna ai movimenti politici. Una Genova guidata da Don Andrea Gallo che grida "giustizia", e invita i manifestanti a dimostrare cos'è la democrazia e a non lasciarsi provocare dai "figli di puttana". Intanto bandiere rosse, sventolando, spolverano i raggi del sole, e la gente alza la voce puntando in alto cartelloni di protesta, di cui è trapuntato tutto il corteo. La giornata è serena, non ci sono agenti in divisa, salvo 700 uomini in borghese . Unico neo, qualche insulto ai carabinieri e scritte come "10-100-1000 Raciti e Nassiriya, polizia assassina".
I negozianti non usano le serrande per proteggersi dagli agitatori, e la giornata fa pensare un pò alla bella copia dei brutti giorni di luglio. Tutto fino alle 18, quando milioni di scarpe abbandonano le strade della città, che così prendono una boccata d'aria e tornano a vedere il cielo.

Allora non resta che domandarsi cosa sia stata Genova questa volta, perché la risposta la dice lunga, non solo sui postumi del G8, ma su questa nostra Italia. La parola sulla quale riflettere è "diversità". La città infatti è stata un mosaico: tante pelli, tante età, lingue e provenienze. Soprattutto tanti problemi irrisolti che, in particolare negli ultimi tempi, fanno di Genova sempre meno un tumore di sinistra, e sempre più un tumore sociale.
Nella città infatti, hanno trovato la loro esplicazione più drammatica e viscerale due fenomeni, quello della sicurezza e quello dei movimenti. La società, da diverso tempo, va a braccetto sia con l'uno che con l'altro. Al Palazzo, infatti, dicono che la sicurezza non è un problema di destra o sinistra, e dal basso si risponde al Palazzo che ha proprio ragione. Ne è emblema l'ultima pallottola da stadio toccata al ventottenne Gabriele Sandri. Essa ha generato due reazioni: attacchi rabbiosi alle caserme per risvegliare una giustizia in stato comatoso e, ancor più importante, un ponte che dagli stadi finisce a Genova, e fa incontrare a metà strada Gabriele e Carlo. Due vite forse agli antipodi, ma unite dalla realtà imbarazzante del distintivo.
Nel frattempo, i movimenti critici, seppur con una forte componente rossa, stanno diventando protagonisti di una contestazione sempre più allargata, che affonda nella concretezza più che nell'ideologia. Questa realtà ha tanti nomi: Tav, Mose e ancora No Dal Molin. Essi sentono una solidarietà che li accomuna tra loro e li lega a quelle correnti di dissenso con cui condividono le orecchie da mercante del governo. Genova è l'emblema di questa solidarietà, che si fa forza perché l'inziativa collettiva assuma una forma di concertazione e non si consumi nell'autorefenzialità.

Per la commissione di inchiesta quindi, indagare sui fatti del G8, avrebbe voluto dire dare una risposta alla sinistra di allora e alla società di oggi. Avrebbe significato ristabile i contenuti del lecito e dell'illecito, frenando degenerazioni civili, figlie di una giustizia preda del relativismo. Sarebbe stata un segnale di ascolto e pacificazione verso i movimenti critici, per sfatare quel senso di intimidazione di cui si sentono bersaglio.
Ma la commissione di inchiesta in Italia non c'è, al tumore non si è messo mano nemmeno stavolta, e in Italia appariranno presto le prime metastasi del male.





WhiteRabbit

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