13 novembre 2009

ROGER BALLEN: UNA MACCHINA FOTOFRAFICA AL CIVICO DELLA PAZZIA


Immagini quadrate per stanze chiuse. Luoghi nei quali l’obiettivo di Roger Ballen ha messo sotto vuoto una dimensione inquieta e sinistra confinandola nello spazio asfittico delle sue fotografie, recentemente raccolte in un nuovo lavoro, “Boarding House”.


Ballen nacque nel 1950, nella New York in cui i barattoli di “Tomato” si apprestavano a passare dal carrello della spesa alla serigrafia, e dove da un pennarello a vernice, imboscato dentro una tasca di jeans sbrindellata, sarebbe saltato fuori un quadro da milioni di dollari. Sin da ragazzino, oltre a respirare l’aria di cambiamento che attraversava l’arte, poté vivere a stretto contatto con la fotografia. Durante gli anni ’60, sua madre lavorò per la Magnum e fondò una delle prime gallerie fotografiche della grande mela. Di più, Ballen poté scorrazzare tra le gambe di monna lise come Cartier Bresson, Eliot Erwitt, Paul Strand e soprattutto Andre Kertesz. Il lavoro di quest’ultimo, infatti, è spesso rievocato nelle immagini del fotografo, anche solo da piccoli accorgimenti aggiunti come si aggiunge una punta di sale nella pentola.


Pure, nei primi anni ’70 la macchina da foto si trasformò in un giocattolo da prendere sul serio. Tra bandiere schiaffate addosso al cielo, ammucchiate di capelli rincalzati nei pantaloni, e zeppe che marciavano per le strade come palazzi a portata di ratto, Ballen documentò la rivolta, arraffando le sue immagini succulente con qualche lazo di pellicola.

Diversi anni più tardi, l’Africa del sud; il suo sole tremulo e avvampato che scrosciava calore costante, fondendo le zone rurali in cui il fotografo cominciò a passare il tempo libero. Qui, la svolta.


Ballen abbandonò improvvisamente lo spazio aperto, i paesaggi ossigenati che lo circondavano, per intrappolare se stesso e la sua Rolleiflex 6X6 negli ambienti chiusi. Quello che doveva fare, infatti, era fotografare la trappola. Alcuni emarginati bianchi del posto accettarono di smezzare con lui l’aria delle loro camere scarne, marchiate dai segni di mobili estinti. Allora le sue foto, con tocco lapidario, ritrassero volti sconditi di qualunque serenità. Uomini e donne dai sorrisi ebeti, che fissano l’obiettivo con sguardi stranianti e corpi anomali, sui quali, a volte, cola qualche vestito smunto. Immagini che creano corrispondenze arbitrarie tra persone e animali, ponendoli in una realtà alterata che respinge e attrae, corrodendo qualsiasi controllo razionale in chi guarda. E ancora esseri umani spesso legati da lampanti vincoli sanguigni, di cui Ballen raffigura il lato sottilmente difettoso con una franchezza a tratti fastidiosa. Una serie di scatti disarmanti per la loro autenticità, in cui l’imperfezione punta i piedi di fronte alla macchina fotografica con dignità e coraggio.



Presto le stanze dalle mura ulcerate, che perdevano grumi di vernice su pavimenti dall’aria tombale, divennero i luoghi di strane fantasie dal retrogusto angosciante, e la macchina fotografica l’occhio che sembra guardare il fondo di una scatola degli scherzi, in cui gli oggetti vengono disposti secondo accoppiamenti ostili. Ballen, infatti, prese ad arredare gli spazi di cui disponeva assecondando le logiche di intuizioni visive minacciose, che tendono a snaturare le cose per come le conosciamo, caricandole di isteria.

Mani nodose, gambe spolpate, volti preda di urla eccessive, fanno da comparsa sbucando da vecchi scatoloni o da pile di materassi pregni di polvere, mentre qualche resto di bambola giace crudamente a terra senza possibilità di innocenza. Il tutto amplificato dalla presenza di stampelle ritorte, graffiti infantili e pelli zebrate di animali scuoiati.


Immagini psicotiche quelle di Ballen, lo scolo di un incubo che fa sgranare gli occhi e ti lascia con un battito accelerato, mentre allontani lo sguardo a braccetto della follia.





WhiteRabbit




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